La vicenda dei novantamila alberi richiesti dal grande maestro Claudio Abbado come compenso per tornare alla direzione della Scala di Milano apre una questione di grande interesse per la vita delle nostre città e in particolare per il futuro delle aree verdi urbane.
Nelle nostre città così povere di verde, sarebbe già un obiettivo esaltante se si riuscissero a mettere a dimora i novantamila alberi, ma ancora più straordinario risultato si conseguirebbe se quei nostri meravigliosi compagni di vita quotidiana fossero pensati per conseguire un assetto compiuto, formassero cioè un sistema continuo all’interno all’organismo urbano. Delineassero insomma una rete di aree verdi di piccola e grande dimensione, di percorsi alberati e di connessioni alternativa al sistema stradale sempre più sommerso da mezzi di trasporto inquinanti.
Sono molti gli abitanti delle città, specie nelle nuove generazioni, disposti ad utilizzare la bicicletta o a muoversi a piedi per raggiungere i luoghi di lavoro o di studio. Molti rinunciano proprio per la mancanza di un disegno organico dei percorsi alternativi all’automobile. Gran parte delle nostre città si sono limitate a tracciare piste ciclabili relegandole in modesti corridoi paralleli alle principali strade. Così si pedala o si cammina avvolti da inaccettabili tassi di inquinamento atmosferico e acustico. Spesso, poi, si è costretti a umilianti gimcane per evitare le onnipotenti automobili. La conseguenza è che molti potenziali utenti rinunciano e vanno ad ingrossare il numero degli spostamenti in automobile.
Le nostre città hanno ancora al centro della propria cultura l’automobile e anche le modeste spinte a creare i primi germi di intermodalità sostenibile vengono soffocate. Manca ancora un pensiero alternativo che metta al centro delle sfide progettuali le aree verdi, i viali alberati di collegamento e i percorsi protetti.
Le città andrebbero ripensate con l’obiettivo di facilitare e rendere gradevoli i percorsi pedonali e ciclabili. Le città ritroverebbero il respiro oggi soffocato da un traffico insostenibile. Recupererebbero una vivibilità oggi scomparsa.
L’interesse manifestato per la proposta di Abbado da parte di Renzo Piano stava forse in questa straordinaria opportunità. Non era soltanto la quantità del numero di alberi a rendere importante la proposta. Era la qualità potenziale dell’intervento a rendere affascinante l’attuazione dell’ipotesi. Una grande città, cuore pulsante dell’economia nazionale che iniziava il lento e indispensabile cammino di riconversione ecologica.
Sembra che non se ne faccia nulla ed è un peccato. Soprattutto per le motivazioni che sono state portate a sostegno della rinuncia. Sembra –così almeno affermano gli amministratori milanesi- che mettere a dimora i novantamila alberi costerebbe 13 milioni e mezzo di euro, cifra insostenibile perché, questo è il ritornello, “non ci sono i soldi”. Dietro questa giustificazione ci sono due atteggiamenti molto criticabili. Il primo è più generale e riguarda il fatto che la sistemazione del verde, la creazione di nuovi parchi, l’abbellimento delle città sia pensata ancora come un costo e non uno degli obiettivi prioritari dell’azione delle amministrazioni pubbliche.
Questo limite culturale mi sembra lo scoglio maggiore da superare per inaugurare una nuova stagione di interventi urbani. La bellezza e la vivibilità delle città non sono un costo: sono una straordinaria risorsa che darà frutti negli anni a venire. E’ il solo modo nuovo di vedere il futuro.
In altre epoche storiche le città hanno compiuto progressi straordinari proprio a partire dalle esigenze che emergevano dalla società. E Milano ha in questo senso da vantare un caso straordinario. Il 5 gennaio 1910, mentre si stava per dar vita alla municipalizzata per l’energia, l’Aem, scriveva il Corriere della Sera che: “Cure speciali si sono rivolte nel 1909 allo studio di tariffe di favore per i privati consumatori. Nel 1909 vennero infatti introdotti i forfaits di favore per l'illuminazione delle case popolari; ora si stanno studiando quelli per i piccoli esercenti. Così si viene attuando quello che era col ribasso generale dei prezzi di questa moderna energia uno dei capisaldi del programma di municipalizzazione; la popolarizzazione della forza elettrica presso le classi meno abbienti, per ricostituire la piccola industria e l'industria a domicilio”.
In quel momento si erano dunque individuati alcuni nodi che non permettevano di raggiungere la piena apertura della società: gli abitanti più poveri non potevano permettersi l’uso della nuova energia e anche la piccola industria doveva essere aiutata a compiere il salto tecnologico. Il grande pensiero civico che stava dietro la cultura delle società municipalizzate affrontò coraggiosamente questo nodo creando culture d’azienda nuove, straordinarie competenze scientifiche e gettando le basi per una città che guardava al futuro.
E non è oggi forse la riconversione ecologica a rappresentare la principale questione da affrontare per guardare al futuro delle città?
In questo modo non solo recupereremmo la vivibilità perduta, ma potremmo anche colmare il ritardo che ci separa dalle città europee. E’ infatti noto che in tutti i paesi avanzati si stanno attuando politiche di limitazione dell’uso dell’automobile e di potenziamento dei sistemi di trasporto non inquinanti, dalle tramvie alla rete delle piste ciclabili.
Si demoliscono autostrade urbane costruite dalla cultura degli anni ’60 come a Berlino, si cancellano gli assi stradali di attraversamento dei quartieri nate negli anni ’70 come a Stoccolma. A Londra si impedisce alla radice l’uso dell’automobile cancellando i parcheggi nel centro. Le nostre città guardano purtroppo ancora indietro, ad una fase superata dello sviluppo urbano.
Ma anche nel merito, e veniamo così al secondo elemento di censura, l’atteggiamento del comune di Milano non sembra in grado di cogliere le esigenze di novità che provengono dalla società.
Milano è una città ricca, come può spaventarsi dall’assumere un impegno di spesa così modesto come i citati 13 milioni e mezzo necessari per i nuovi alberi?
Bastano in questo caso soltanto due esempi scelti tra un elenco sterminato per toccare con mano la quantità di denaro pubblico che viene spesa. A Roma per completare la realizzazione di una grande opera come lo stadio del nuoto che avrebbe dovuto entrare in funzione nel 2009 si spenderanno 600 milioni. Per realizzare opere nell’isola della Maddalena abbiamo impegnato 200 milioni. Nella stessa Milano è prevista la spesa di molte risorse per l’evento Expo 2015.
Il problema non è dunque quello della mancanza assoluta di risorse. Il nodo vero è l’uso delle risorse pubbliche. Il problema è che vengono sistematicamente privilegiati progetti ed opere incrementali e non si pensa a migliorare l’esistente. O, ancora, che ci si indirizzi sempre verso le grandi opere e la costruzione di infrastrutture stradali.
A Parigi è stata invece realizzata in tre anni una nuova linea tranviaria. Nell’area londinese nel 2009 è stata inaugurata una nuova ferrovia suburbana che collega la city con la regione del Kent in poche decine di minuti.
Il caso degli alberi del maestro Abbado svela dunque i ritardi culturali di cui soffre l’Italia. E sarebbe davvero indispensabile non lasciar cadere la proposta: Milano potrebbe ancora cogliere l’opportunità di collocarsi all’avanguardia di un profondo ripensamento della sua struttura urbana. Il verde urbano e la rete ecologica sono le uniche alternative per avviare una nuova fase della vita delle nostre città.