A proposito dell'orrore della recente notizia di quel cacciatore che ha ucciso due guardie zoofile e poi si è tolto la vita, ascoltiamo un racconto riparatore che ci farà respirare con sollievo: sono le parole dell'uomo simbolo re del mare: Enzo Majorca, per tanti anni acclamato recordman dell'immersione in apnea:
"Lo confesso, ero un accanito pescatore subacqueo. Fino a che non mi sono reso conto della realtà.
"E' avvenuto tutto all'improvviso. Mi ero immerso in una secca poco lontana dal capo che protendendosi verso il mare aperto chiude a sud la baia di Siracusa. Quella mattina mi accadde di arpionare una cernia.
Una cernia robusta, combattiva, che non condivideva per niente con me l'idea di andare a rimpinguare la mia già pingue tavola. Cercavo di affermare la mia arrogante supremazia umana e si scatenò sul fondo una vera e propria lotta titanica fra la cernia che pretendeva di salvare la sua vita e me che pretendevo di togliergliela. La cernia era incastrata in una cavità fra due pareti; cercando di rendermi conto della sua posizione passai la mano destra lungo il suo ventre.
"La cernia mi scagliò sul palmo della mano il suo cuore. Pulsava terrorizzato, impazzito dalla paura. E con quel pulsare di sangue ho capito che stavo uccidendo un essere vivente. Da allora il mio fucile subacqueo giace come un relitto, un reperto archeologico impolverato nella cantina di casa mia. Era il 1967".
"Ho capito che stavo uccidendo un essere vivente": Majorca ha dimostrato di essere grande anche nel senso di adulto, colui che è capace di stare in contatto con la sua emozione e di ragionarci di conseguenza.
Quanto a quelli che continuano a non deporre il fucile, i quali troppo spesso lo usano anche contro la moglie e i figli, c'è lo studio di una ricercatrice di Treviso, Carla Corradi, che in un saggio sulla psicologia del cacciatore (C. Corradi, A chi spara il cacciatore?, Carlo Lorenzini Editore, Treviso 1988) dimostra che questi soffre di un arresto della libido alla fase orale, nella primissima infanzia. Qualcosa è andato storto nei primi due, tre anni di vita:
"Dei tre studi su soggetti italiani - dice la Corradi - ho scelto quello del Nord, col fattore più alto. Forse la causa è da ricercarsi nel tipo di madre del Nord. Come sono le donne trentine, o almeno quelle che hanno fatto da madri ai miei cacciatori? Dobbiamo andare indietro di una generazione o più; donne che hanno vissuto una guerra o due (i cacciatori hanno un'età che va dai trenta agli ottant'anni).
"La donna trentina è una donna forte, autoritaria, severa, esigente, che per le circostanze della vita ha dovuto spesso fare da padre ai suoi figli. Quindi non è forse la madre solo tenera e dolce che ogni uomo sogna. Nel linguaggio psicoanalitico la donna forte, autoritaria, severa, esigente è definita donna fallica, castrante, onnipotente. Diana, la dea cacciatrice, o meglio ancora Artemide potrebbe rappresentarla nel simbolico. O, per intenderci, ogni madre, tenera e dolce con il figlio neonato, può diventare esigente man mano che il figlio cresce. Si spiegherebbe così quell'incomprensibile ambivalenza presente nei cacciatori e inspiegabile a loro stessi che si manifesta nell'amore per la natura (madre buona) che il cacciatore dice di avere (88%) e in quello sparo all'uccello (aspetto maschile della natura).
"Tale conflitto non si esplica nei confronti del padre, ma nei confronti della madre ambivalente, buona e cattiva. Melanie Klein (Invidia e gratitudine) afferma che nei primi mesi il bambino vive la madre come fonte di vita, in quanto il seno lo nutre, lo toglie dall'ansia, gli dà calore, ma anche come fonte di morte, in quanto chi ha il potere di darti la vita può anche togliertela. Contro questa onnipotenza il bambino scatena l'odio, perché si odia chi ha in mano il nostro destino. E le domande più difficili del questionario rivolto ai miei cacciatori, quelle cioè che hanno richiesto più tempo per formulare le risposte, sono state appunto quelle riguardanti la madre e le donne".
E a proposito di uccelli: la studiosa di archeologia e antropologia di fama internazionale Marija Gimbutas ha recentemente dimostrato (Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea Madre nell'Europa neolitica, Longanesi, Milano 1997) la connessione diretta fra gli uccelli e la Dea Madre dell'Europa neolitica, la divinità primigenia il cui regno, pacifico e fertile, si estendeva su tutta l'Europa dal Portogallo alle steppe dell'Asia centrale fin da 8.000 anni fa fino a che fu soppiantato nel 2000 A.C. dalla cultura protoeuropea dei Kurgan, guerrieri e patriarcali, sotto il cui giogo soffriamo ancora oggi.
Non è da meravigliarsi se il guerriero bianco se la prende con il fringuello più leggero della cartuccia usata per sparargli: quell'uccellino piccolissimo è il simbolo diretto della Grande Dea, della nemica di un tempo, mai sconfitta veramente se ancora tanta ansia, tanta fatica, tanto denaro viene speso - lunghe marce di chilometri in mattine gelide, in luoghi impervi, per andare a sparare a un uccellino privo di valore economico, spesso lasciato lì senza neanche portarselo via.
Per non parlare di quell'alto personaggio italiano che si faceva portare in macchina in un luogo dove c'era un recinto, in cui al suo arrivo veniva liberato un cervo: l'alto personaggio gli sparava, e poi se ne andava, abbandonando per terra la bestia uccisa. La moglie dell'alto personaggio un giorno lo lasciò, per la gelida freddezza con cui era trattata.
Ma la verità della vita non è la lotta per la sopravvivenza, il dover dimostrare di essere più forte di un altro; la verità della vita è la collaborazione del vivente con il vivente: ce la mostra il bellissimo film francese "Microcosmos" di Marie Peronnou e Claude Nurdsany, con la scena in cui una formica tende una zampina per aiutare un'altra formica a salire sopra un gradino.
Guardiamo gli uccelli migratori quando passano nei nostri cieli due volte l'anno, percorrendo 8.000, 10.000 chilometri dall'Africa all'Artico e viceversa: volano in formazione perfetta, a distanza regolare l'uno dall'altro, tutto il tempo consapevoli della necessità di stare insieme, ognuno nel suo posto, magnificamente collegati da qualcosa di invisibile ma che c'è, come la musica.
Permettimi, gentile lettore, questa poesia:
Noi voliamo tutti insieme
Non si smaglia mai la rete
- ricamo per noi troppo lontano
per non sembrarci nero -
che, ondulando lenta,
va pulsando per i cieli.
Noi siamo un'unica materia
arbitrariamente separata
arbitrariamente vista
come separata.
Noi siamo
quell'unico specchio rotondo
scagliato nel cielo a frantumarsi
in piccolissimi pezzi.
Ora siamo qua
e siamo tanti noi.
Però la luce è la stessa.
La rubrica di Luciana Marinangeli per Il Respiro