Ragazzo, si dibatteva fra due desideri: diventare un coltivatore di rose o intraprendere la carriera diplomatica come il padre. Scelse la diplomazia e continuò ad amare i giardini. Boris Biancheri è stato ambasciatore italiano a Tokio, a Londra e a Washington. Scrittore, saggista, è Presidente dell’Associazione Giardini Botanici Hanbury a Ventimiglia (Imperia). Ci spiega la sua scelta: «Sono i giardini della mia infanzia, della mia giovinezza, dell’età matura e della vecchiaia. L’ultima proprietaria, Lady Dorothy Hanbury, era un’amica di mia madre. Si è occupata dei Giardini cercando disperatamente di tenerli in piedi, poi vennero la guerra, il dopoguerra e furono lasciati andare. Noi ragazzi ci andavamo a giocare, c’era un campo di tennis, entravamo di soppiatto. La mia casa dista non più di un chilometro e mezzo dal confine del giardino. Spesso ci andavo a nuoto».
Come sono nati i Giardini Hanbury?
Nel 1867 Thomas Hanbury, un bravo mercante che si era arricchito facendo importazioni dalla Cina percorse la costa ligure, vide un tratto di terra con un podere che apparteneva alla famiglia Orengo e se ne innamorò. Una punta che va verso il mare, rimasta miracolosamente intatta, una trentina di ettari con alle spalle la macchia mediterranea percorsa da un torrente. Thomas Hanbury e il fratello iniziarono questi straordinari giardini, il figliò continuò arricchendoli. Dopo la guerra la famiglia Hanbury cercò di rimetterli in ordine ma mancavano i mezzi e li vendettero alla Stato Italiano. Oggi sono dell’Università di Genova. Mentre ero all’estero i giardini conobbero il degrado. Un gruppo di persone fra cui Paolo Profumo, direttore dei Giardini Botanici di Genova, lo scrittore Nico Orengo crearono un’associazione di amici per aiutare i Giardini. Vivevo a Londra, feci incontrare l’allora Ministro degli Esteri italiano Andreotti con il Ministro del Esteri inglese: i Giardini tornarono a essere un punto di contatto fra i due paesi.
Quali suggestioni le hanno dato?
Da piccolo mi nascondevo sempre nel giardino delle piante grasse, suscitavano in me ammirazione e invidia. Affascinanti e irreali, sembrano distanti eppure sono sempre lì. Ci sono 114 specie di agave biforcute, triforcute, che divorano l’aria, le aloe. Oggi la mia zona preferita è quella dei profumi, una terrazza interamente dedicata alle piante odorose. I viali sono belli e irregolari, con il giardino degli agrumi e il frutteto tropicale. Fra cascate d’acqua, c’è la zona delle ninfee e delle pianti acquatiche. Nei Giardini sono state acclimatate migliaia di specie, soprattutto tropicali e sud tropicali, vengono dall’Australia, dalla Nuova Zelanda, dall’Africa del Sud, dall’Asia Orientale.
Nelle tante residenze del mondo in cui ha vissuto, quale giardino le ha dato particolare emozioni?
Quello dell’Ambasciata d’Italia a Tokio, in cui ho vissuto 24 anni fa. E’ tipicamente giapponese, con acque e sentieri, splendidi cedri. Il vuoto conta più del pieno come nell’estetica nipponica. E’ un giardino storico. Verso la fine del Seicento quarantasette Ronin, samurai, si suicidarono perché rimasti senza padrone. Solo in Giappone poteva accadere un fatto simile, in altri parti del mondo si uccideva il padrone per restarne senza. Questo episodio, Chushingura, ha dato celebrità al luogo.
E come ricorda quello dell’ Ambasciata italiana a Washington?
Villa Firenze è una casa del secolo scorso, nobile ma non prestigiosa. Ha un grande parco fatto di prati e boschi. Ci sono siepi di bosso come nei giardini all’italiana, piante della Virginia, alberi di alto fusto, tigli, betulle, molti ciliegi. La loro fioritura è uno spettacolo rinomato.
Ha visitato i grandi palazzi dei governi e dei presidenti. Quali caratteristiche hanno i giardini dei potenti?
Il giardino della Casa Bianca è ordinato, sereno. Non attira particolare attenzione se non per gli spazi. La parte che fronteggia la casa è formale, si scende di qualche scalino, c’è un grande prato con un viale centrale che si biforca. Non posso dimenticare il giardino dell’Imperatore del Giappone: immenso e deserto, non è percorso da nessuno. In Giappone l’estetica è più soddisfatta dalle assenze che dalle presenze. Ho avuto la possibilità di conoscere l’Imperatore Hirohito, fra i protagonisti della Seconda Guerra Mondiale. Venne all’Ambasciata italiana, perché era in visita il presidente Pertini, di due anni più anziano di lui. Non era mai accaduto che l’Imperatore visitasse un’ambasciata straniera.
Un giardino in cui è avvenuto un evento a cui avrebbe voluto assistere?
Non ero ancora ambasciatore, ma solo un giovane funzionario diplomatico destinato alla Nato. Durante una missione fummo ricevuti da John F. Kennedy nel giardino della Casa Bianca. Ci mostrò il giardino, ma ero più attratto dal giovane presidente che dalle piante. Nello stesso luogo, molti anni dopo, avvenne quello che rischiò di essere un momento decisivo: l’abbraccio fra esponenti palestinesi ed israeliani. Non si tradusse in realtà, quella pace che allora Clinton pensava di avere raggiunto non è mai arrivata.
Com’è il giardino di casa sua?
La mia è una vecchia casa genovese, fine Seicento, con il tetto di lavagna, circondata da un gran giardino. All’inizio del Novecento, quando cominciò la costruzione di tutta la Liguria, molto materiale venne prelevato dal fiume Roia, che sfocia in mare a Ventimiglia. Così hanno costruito Sanremo, Ospedaletti, Bordighera, Moneglia. L’apporto che il fiume dava al mare con pietre e sabbia cessò, perché il materiale veniva prelevato per costruire le case. Il mare in quella zona avanzò, senza però toccare i giardini Hanbury perché difesi dalla rocce; la mia casa è invece in fondo alla baia, che precede queste rocce. Il mare avanzò per circa quaranta metri e distrusse una cappella. Mio padre riuscì a mettere dei blocchi ma l’acqua era ormai fin sotto casa. Il mio giardino oggi è la metà di quello di un tempo, ha reso la casa spettacolare e drammatica. A valle c’è il giardino e sotto il mare. E’ un vicino scomodo, ci si affaccia alla finestra e si rischia di essere inondati.
Un appuntamento di lavoro in un giardino che non può dimenticare?
A vent’anni suonavo il pianoforte – jazz, ragtime – malissimo in un bar della costa francese. Il proprietario era un irlandese, ubriaco dalla mattina alla sera. Era l’unico che amasse il mio modo di suonare e mi pagava perché lo facessi. Gli avventori avrebbero preferito che non suonassi. Fra di loro c’erano persone illustri, come lo scrittore inglese Somerset Maugham che aveva una casa a Cap Ferrat. Una sera mi invitò amichevolmente al suo tavolo dicendo: “Lascia stare il pianoforte e unisciti a noi”. Continuai a suonare, mi pagavano per quello. Lui gentilmente mi invitò a Villa Moresca. Passeggiando nel suo giardino mi diede una lezione di vita: “Quando incontri delle persone che hanno esperienza e ti suggeriscono di cambiare, ascoltale. Non fare più il pianista”. Ho fatto il diplomatico. Sicuramente ho fatto meno danni alle relazioni internazionali che alla musica, se avessi continuato a suonare.