«Dalle montagne ho imparato l’umiltà. Mi hanno fatto capire quanto sia piccolo rispetto loro» dice Jon Krakauer mostrando le foto delle vette che più ha amato. Alpinista, scrittore, giornalista, spiega la sua passione: «Scalare è la mia psicoanalisi. Sulle vette penso con distacco alla vita. La mia terapia salvifica è immergermi nella natura. A casa, in pianura, divento claustrofobico. Sarà un luogo comune ma la montagna è la mia connessione spirituale con Dio. Non sono praticante ma a contatto con la natura mi sento come un credente quando prega».
Quando ha scoperto la montagna?
A otto anni, vivevo nell’Oregon, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, a Nord della California. Vicino a casa mia c’erano vette di tremila metri. Mio padre scalava da sempre, mia madre ha iniziato a seguirlo. Ho scalato con entrambi e sono l’unico di quattro fratelli che si è innamorato dell’alpinismo.
A quale cima è più affezionato?
Nel 1974, a vent’anni, ho scalato una vetta nel Circolo Polare Artico a Nord dell’Alaska, dove d’estate non cala mai il sole per 24 ore. Una vetta granitica con la forma di pinna di squalo. Non ha nemmeno il nome sulle mappe. Era la prima volta che ci saliva qualcuno e non credo che qualcuno ci sia tornato. E’ stata l’esperienza più profonda della mia vita. C’è una luce molto particolare che non ho più rivisto. Sotto c’è la tundra piena di orsi. Dopo aver incontrato quella montagna ho capito che scalare sarebbe stata la mia vita.
Nel 1996 ha partecipato a una spedizione sull’Everest finita tragicamente: una tempesta ha causato la morte di nove alpinisti, fra cui due guide. Perché ci è andato?
E’ la montagna più alta del mondo, dovevo scrivere un reportage per Outside, il giornale con cui collaboro. Se avessi scalato il K2 l’esperienza sarebbe stata diversa. Ci sono folle di persone che vanno sull’Everest solo per dire di averlo scalato. Non sono né arrampicatori, né uomini di montagna. Lo spirito di chi vuol arrivare alla cima è diverso da quello che trovi scalando altre montagne. Tutto questo ha portato alla tragedia che ho vissuto. Troppe persone sono lì per la ragione sbagliata. Quando si scala occorre la responsabilità di tutte le azioni che si intraprendono. Sull’Everest devi essere guidato. Invece è importante continuare a pensare da soli. Io non l’ho fatto e ho lasciato che fosse la guida a prendere le decisioni. E’ stato il più grande errore della mia vita.
Perché ha voluto tornarci?
Non sono tornato sull’Everest ma alla base, con un amico, per insegnare agli sherpa. Sono scalatori infaticabili e resistenti ma nessuno insegna loro come annodare la corda, come ancorarla. Non conoscendo questi sistemi di sicurezza spesso muoiono scalando.
Cosa le ha lasciato quell’esperienza?
Ho vissuto gli anni successivi in depressione, ero sempre arrabbiato, chiuso in me stesso. Mia moglie mi consigliava di farmi aiutare ma non l’ascoltavo. Con il tempo ho scoperto che era una sindrome post-traumatica. Ho rivisto la stessa patologia nei soldati americani incontrati in Afghanistan. Prima dell’Everest non ero mai stato a un funerale, lì ho perso dei miei amici. Oggi sono meno spaventato dalla morte, so condividere il dolore degli altri. Scalare l’Everest è stato il più grande errore della mia vita. E l’ho pagato caro: sono sopravvissuto.
Cos’è per lei oggi il rischio?
E’ importante, ma non dev'essere solo fisico. Quando si è giovani si pensa di essere immortali. A cinquantasei anni sto cercando il coraggio di correre il rischio di trovarmi in imbarazzo, fallire, soffrire emotivamente e amorosamente. Mi piace arrampicarmi in montagna, ci vado tre volte alla settimana. Il mio amore per le scalate è sempre stato egoista, adesso ne sono consapevole. Sto cercando di cambiare, voglio essere un marito migliore. A ottobre festeggio il trentesimo anniversario di matrimonio. Mia moglie mi è sempre stata vicina, nonostante le mie fughe in montagna, ma per lei e per mio figlio non metterò più a repentaglio la mia vita.
E’ sempre stato attento alla natura e all’abuso che l’uomo ne fa…
Sono molto preoccupato. Siamo ancora poco sensibili e rispettosi dell’ambiente. Finora la natura è sempre riuscita a recuperare. Adesso, con l’aumento della popolazione questo salvataggio sta finendo: il surriscaldamento globale, l’innalzamento delle acque oceaniche… Sette miliardi di persone possono influenzare il clima e in futuro gli effetti saranno sempre più negativi se non controlleremo i nostri consumi la natura reagirà con nuove catastrofi. Seguiranno decenni di inondazioni, carestie, miseria.
Secondo lei non torneremo più indietro?
Non è più possibile. Dobbiamo cercare di proteggere ciò che rimane. Ci sono ancora posti che si sono preservati se dovessero scomparire la terra sarà diversa.
Quale luogo vorrebbe salvare?
L’Alaska.
C’è ancora poca cultura ambientale. Perché?
Siamo egocentrici e manchiamo di saggezza. Non riusciamo ad andare oltre i nostri bisogni immediati. Ci vorrà una catastrofe per ridimensionarci e scatenare in ognuno di noi un profondo cambiamento.
Come trasmette a suo figlio l’amore per l’ambiente ?
Esponendolo alla natura, lo porto a camminare in montagna, facciamo insieme mountain bike. So per esperienza che non si può imporre nulla ai figli ma solo proporre, condividere. Mio padre mi voleva medico.
L’America è un paese di grandi boschi e foreste. A quale pianta si sente legato?
Il pino (con la pigna). Amo il mio giardino nel Colorado. Ci sono piante locali, piccoli fiori alpini, cactus. E’ molto naturale. Linda, mia moglie è botanica e architetto di giardini. Lei dirige, io faccio solo il lavoro manuale.
Jon Krakauer è nato nel 1954 nell’Oregon, dov’è cresciuto. All’età di otto anni con i genitori e i fratelli inizia ad appassionarsi all’alpinismo. E’giornalista , scrittore e alpinista di professione. Vive in Colorado, è sposato con Linda Moore, botanica e architetto di giardini, hanno un figlio. Krakauer ha scalato il Cerro Torre, in Patagonia, Nel 1996 ha partecipato ha una spedizione sull’Everest conclusasi tragicamente: nove morti fra cui due guide. Ha raccontato il suo dramma nel libro "Aria Sottile", candidato al Pulitzer. In Italia ha pubblicato "Il silenzio del vento", "In nome del cielo", "Nelle terre estreme" da cui Sean Penn ha tratto il film "Into the Wild" (tutti editi da Corbaccio). Nel suo ultimo libro "Dove gli uomini diventano eroi" (Corbaccio pag. 459 € 18,60) ricostruisce vita e morte di Pat Tillman, campione di football americano ucciso per sbaglio in Afghanistan da fuoco amico.