Di fronte alla tragica morte di don Francesco Cassol, il sacerdote ucciso per errore da un bracconiere a caccia di cinghiali vicino Altamura, in provincia di Bari, è importante tornare a riflettere sulle ragioni di quello che a nessun effetto si può definire uno sport.
Colpito in petto da una fucilata mentre dormiva nel sacco a pelo, in occasione di un ritiro spirituale con un gruppo di ragazzi, il religioso non è purtroppo la prima vittima di una minoranza, quella rappresentata dai cacciatori, niente affatto popolare presso grandissima parte della società civile ma tutelata dalle istituzioni perché evidente veicolo di interesse da parte dell'industria delle armi.
Si pensi che, stando ai rapporti dell'Associazione Vittime della Caccia (www.vittimedellacaccia.org), nei cinque mesi della stagione venatoria 2009-20010 (vale a dire dal 20/09/2009 al 31/01/29010) i fucili destinati agli animali hanno fatto 86 feriti e 31 morti umani, fra cacciatori e vittime casuali. Tali dati sono stati ottenuti solamente attraverso un'attenta lettura dei giornali: si può dunque immaginare quanto siano parziali.
Quanti altri delitti, quanti omicidi o ferimenti vengono compiuti ogni giorno con armi da caccia, che con tanta facilità circolano nelle case degli italiani?
Incoraggiando la mattanza di milioni di animali sempre più inermi rispetto all'inquinamento, alla cementificazione, all'antropizzazione, infatti, si promuove la diffusione sul territorio di utensili fabbricati con un unico scopo: uccidere. Strumenti che altrimenti non avrebbero ragione di circolare fra la popolazione civile, se non per la difesa personale (che comunque richiede motivazioni molto specifiche) ma sarebbero in esclusiva dotazione all'esercito e alle forze di polizia.
Margherita d'Amico è scrittrice, pubblicista, presidente de La Vita degli Altri onlus.