2010, anno internazionale della biodiversità: il grande appuntamento dei paesi della terra per fermare il declino delle specie viventi. Lo volle, quattro anni fa, l’assemblea dell’ONU, come naturale prosecuzione di quel percorso iniziato nel 1992 a Rio de Janeiro con la nascita della convenzione sulla diversità biologica. Tanti di noi seguirono quel summit straordinario – i rappresentanti di tante nazioni riunite – con l’animo pieno di speranze e di aspettative per un mondo diverso, finalmente impegnato a difendere la sua ricchezza di viventi: piante ed animali, non umani e umani, perché tutti ci lega la rete straordinaria della vita.
In questi anni, lo sappiamo bene, la corsa allo sfruttamento selvaggio del pianeta non si è fermata, mentre è cresciuta la sua febbre e il rischio sempre più alto per la biodiversità.
Biodiversità, parola che evoca anche nei più distratti animali bellissimi, ecosistemi rigogliosi, mondi perduti. Quasi un’ ironia, quando sfilano davanti ai nostri occhi le immagini del Lambro avvelenato dal petrolio e le chiazze oleose che si muovono sulle acque, verso il Po e poi al mare. Gli uccelli neri di bitume e le mani di chi cerca di salvarli, sono anch’essi il simbolo di un crimine, e anche del nostro fallimento: verso le altre specie e verso noi stessi. Nonostante i tentativi rassicuranti delle autorità, c’e’ la consapevolezza che quell’onda nera graverà sugli ecosistemi ancora per molti e molti anni, cancellando splendide forme di vita. Oltre a mettere a rischio le attività economiche di una delle zone più ricche d’Italia.
Altro che i Miti del mitico Po! Vera celebrazione sarebbe impedire la morte del fiume, di tutti i fiumi. Con il 2010 siamo al countdown, quel conto alla rovescia che evoca l’urgenza di ogni misura capace di frenare la perdita delle specie. I dati scientifici parlano chiaro, e basterebbe citare il bollettino degli studiosi della IUCN (International Union for Conservation of Nature): su 47.677 specie prese in esame dagli esperti in tutto il mondo, 17.291 risultano sotto minaccia di estinzione. Sono in pericolo, a causa delle varie tipologie di intervento umano, il 21% delle specie conosciute di mammiferi, il 12% degli uccelli, il 30% degli anfibi, il 28% dei rettili, il 37% dei pesci di acqua dolce, il 35% delle specie di invertebrati e il 70% delle specie di piante. Complessivamente, un milione le specie a rischio di scomparire, su dodici milioni presenti sul pianeta.
Notissime, le cause di questa morte annunciata: lo sfruttamento sfrenato delle risorse naturali, l’agricoltura intensiva e chemizzata, la caccia, la distruzione degli habitat, l’inquinamento, la desertificazione, la concentrazione di anidride carbonica che rispetto a due secoli fa è cresciuta quasi del 40%... Lo stravolgimento climatico è l’emergenza che oggi vive il pianeta . Malgrado i tentativi di minimizzare le responsabilità umane è innegabile che sono proprio le nostre attività, la nostra economia, il nostro consumo sfrenato della natura, la causa prima del cambiamento. Il più consistente rispetto alle ultime centinaia di migliaia di anni. Registriamo oggi nella temperatura l''aumento di un grado rispetto a cento anni fa, e sappiamo che una crescita di due gradi costituirebbe una condizione mai verificatasi negli ultimi due milioni di anni.I nostri predecessori e le altre specie hanno compiuto il loro cammino evolutivo in condizioni diverse. Per risvegliare le coscienze assopite, o infastidite dalle verità scientifiche, la domanda è: quale pianeta lasceremo ai nostri figli? E quali possibilità stiamo lasciando agli altri viventi, a quelli dotati di minori capacità di adattamento? Le foreste di mangrovie, la barriera corallina, il manto pluviale dell’Amazzonia e le sugherete, l’orso polare e l’orso bruno, i grandi predatori, e gli uccelli migratori, le api impollinatrici, sconvolti e minacciati dalla incessante modificazione della biosfera condotta da una sola specie: la nostra.
Sicuramente, siamo impreparati e maldestri, anche quando cerchiamo rimedi in nome di una visione “avanzata”: così, per i biocarburanti che dovrebbero sostituire il consumo dei carburanti fossili, l’Indonesia sta abbattendo a ritmo vertiginoso le sue foreste ed è divenuto il terzo paese al mondo produttore di anidride carbonica dopo Stati Uniti e Cina; così, in Europa, vengono sdoganate le coltivazioni in campo aperto di piante modificate geneticamente, mentre imprevedibili sono gli effetti sull’ambiente e sulla biodiversità. Quel che è certo, è che la farfalla Monarca è stata la prima vittima, qualche anno fa, del mais OGM. Le modifiche del DNA, in nome degli interessi commerciali, anche con la filosofia dei brevetti sulle piante “trattate” in laboratorio, riduce la varietà delle piante, soprattutto quelle alimentari. Si tratta di un problema enorme, pure considerando che nel nostro Paese il germoplasma italico è ridotto a meno del 20%.
Per la biodiversità, non è facile elaborare piani di salvezza. Certo, occorre invertire il processo del cambiamento climatico, della deforestazione, dell’inquinamento. Allo stesso tempo, occorrono buone politiche e azioni concrete di conservazione, come la tutela e l’ampliamento del sistema di parchi naturali – tesoro di natura - che con enorme fatica anche l’Italia ha ottenuto e copre quasi il 20% della Penisola. Prezioso è il sistema di “Rete Natura 2000” che da qualche anno, anche se in grande ritardo rispetto alla normativa europea, tutela le nostre aree più belle e ricche di biodiversità vegetale e animale. Fino a qualche anno fa, citavamo con orgoglio la nostra ricchezza: l’Italia seconda nel continente europeo per patrimonio di biodiversità, 48.000 specie, di cui la grande maggioranza costituita da insetti. Con estrema rapidità, il nostro territorio è stato stravolto dall’avanzata del cemento e dell’asfalto, dai capannoni industriali rapidamente abbandonati, soprattutto dalle villette a schiera, l’urban sprawl che è malattia d’Europa perché riconosciuta come causa primaria del consumo di natura, di campagna, di boschi, di prati. “Qui non c’e’ nulla!” dicono i professionisti del mattone con il dito puntato sulle mappe urbane e sui lembi di verde stretti tra i palazzi. “Qui si può costruire”. Nulla? In quello spazio verde c’e’ terra ed erba e fiori spontanei, piccoli animali, insetti e uccelli, arbusti che respirano con noi e che ci aiutano a respirare: grande quantità di ossigeno liberata dal mantello delle foglie in cambio dello stoccaggio di anidride carbonica. Abbattimento delle polveri sottili, azione termoregolatrice, fono assorbenza, bellezza, benessere del nostro sistema neurovegetativo.
L’urbanistica è oggi il cuore della questione ambientale. Oltre metà della popolazione mondiale vive ormai negli agglomerati urbani, generalmente in condizione di grande malessere – e lo smog non si risolve più con una domenica appiedata ogni tanto. La città distrugge la salute degli umani – basti guardare i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – e la loro qualità di vita, distrugge la biodiversità, cancellando le residue aree verdi, ma ancora è grande la presenza degli animali selvatici e la loro tutela rappresenta una grande scommessa per tutti noi, dal momento che trovano nelle città risorse disponibili e meno pericoli. Accanto alle politiche di conservazione delle specie nelle grandi aree naturali, dunque, è necessario pensare alla città come ad un autentico “ecosistema”, all’insegna della sostenibilità. La forestazione urbana, anche nell’agenda di Kyoto sul clima, è una misura fondamentale.
Affascinante la richiesta fatta alla città di Milano da Claudio Abbado della piantumazione di 90.000 alberi, che Renzo Piano vorrebbe portare nel cuore della città, scontrandosi con una visione del tessuto urbano molto conservatrice. Dovrebbero esserci di aiuto le esperienze di altre città europee, che sanno coniugare la struttura urbana con le esigenze della biodiversità: corridoi ecologici attraverso lunghe alberate, reti ecologiche con la connessione delle “isole” in cui vivono popolazioni di piante e di fauna selvatica, misure di fermo del mattone fuori della cinta urbana, come ha fatto Londra, bloccando l’ulteriore consumo del territorio: si può, si deve.
Invece, insostenibile è oggi l’essere umani sul pianeta. Servono, è vero, subito politiche coraggiose. Ma serve l’impegno individuale: che la Terra sia nelle mani di ciascuno di noi, perché da ogni nostro gesto dipende la possibilità di salvare il pianeta.
Per incominciare, ai più riottosi, a quelli che pensano che “tanto poi la Natura si salverà da sé”, consiglio una panchina: sedersi, e guardarsi attorno con attenzione, come facevamo da bambini, per vedere il prato, uccelli, insetti, e sentire le voci di chi parla un linguaggio diverso, ricchezza di cui siamo troppo spesso inconsapevoli.