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MANUALE DI CONVIVENZA - I danni collaterali della caccia

  Si è finalmente conclusa la stagione venatoria 2010 – 2011, ed è così cessato uno dei pericoli più grandi per la sopravvivenza della fauna selvatica, messa già a dura prova dalle devastazioni ambientali, dalla cementificazione e dai cambiamenti climatici.
  La stragrande maggioranza degli italiani secondo i numerosi sondaggi commissionati dal Ministero del Turismo, dalle associazioni ambientaliste, animaliste e venatorie è nettamente contraria alla caccia: per molti si tratta, infatti, di un macabro, anacronistico, cruento e pericoloso rituale che autorizza alcune persone a uccidere per "divertimento" animali selvatici.
  Vi sono, però, altri aspetti della caccia veramente molto preoccupanti, che hanno dei costi sociali enormi, e che dovrebbero essere presi in seria considerazione al di là delle valutazioni etiche che ognuno di noi può avere in merito.
  Iniziamo con alcuni dati.
  Sono in crescita gli incidenti causati dalle armi da fuoco che hanno visto coinvolte numerose persone: secondo l’associazione Vittime della Caccia (www.vittimedellacaccia.org ) sono morte 25 persone, e altre 75 sono rimaste gravemente ferite dagli spari.
  Bisogna sottolineare che ormai i cacciatori sono quasi tutti anziani: secondo una elaborazione della Coldiretti basata su dati Istat e Federcaccia, la maggior parte di chi impugna un fucile ha una età compresa tra i sessantacinque e i settantotto anni, ma vi sono anche ultra-ottantenni – e addirittura novantenni – che esercitano ancora l’attività venatoria. L’età elevata, unita agli scarsi controlli sanitari soprattutto a livello psicologico, rende queste persone particolarmente “pericolose”.
  Ma questi “incidenti” sono purtroppo causati anche da persone relativamente giovani, che nel premere il grilletto hanno sbagliato mira o hanno scambiato un essere umano per una potenziale preda.
  Perdere un familiare o un amico in questo modo, è particolarmente drammatico poiché è inaccettabile che per un “hobby” altrui si rimanga uccisi o gravemente feriti.
  Vittime umane e vittime animali: tra i milioni di animali uccisi direttamente dai cacciatori, vi sono da aggiungere anche quelli colpiti ma non recuperati, come ad esempio i rapaci. Questi volatili sono particolarmente protetti e quindi raramente vengono raccolti dai cacciatori, che non vogliono incorrere in multe o sanzioni.
  In dieci anni di mia attività al Centro Recupero LIPU di Roma solo una volta si è presentato un cacciatore che ha consegnato una civetta, ammettendo di essersi sbagliato.
  Purtroppo, gli animali selvatici non recuperati sono destinati a una lunga agonia, poiché in genere le lesioni causate dalle armi da fuoco sono gravi e procurano fratture alle ali o alle zampe: in queste condizioni un rapace non può più predare, un piccolo uccello non può sfuggire al predatore, l’anatra non può migrare, e via dicendo.
  Gli animali recuperati riportano in genere gravi fratture che possono essere curate con complicati interventi chirurgici. I pallini non si rimuovono, perché è impensabile prelevare dal corpo di un volatile anche 40 pallini posti nelle vicinanze di organi vitali. All’intervento veterinario segue un periodo di riabilitazione di qualche mese, e solamente al termine si potrà valutare se gli esemplari ricoverati riacquisteranno la libertà. Molti di loro, però, non potranno volare mai più a causa delle lesioni riportate: se il loro stato di salute lo consente, rimarranno ospiti dei centri recupero fauna selvatica per scopi di sensibilizzazione e informazione.
  Tra le vittime illustri della caccia vi sono però altri animali, molto più vicini a noi, che condividono assieme a noi la loro vita: i cani e i gatti.
  Le associazioni che gestiscono strutture di ricovero per animali domestici lamentano l’uccisione di felini che vivono in libertà e che evidentemente, a causa della scarsità di prede selvatiche, vengono uccisi “per divertimento” da alcuni cacciatori.
  Sono, però, i cani a pagare il prezzo maggiore. I cani utilizzati per l’attività venatoria in genere vivono reclusi per sette mesi l’anno in box esposti alle intemperie ed agli sbalzi climatici; alcune volte sono tenuti affamati (così si crede abbiano un ulteriore stimolo a trovare la preda), e non hanno alcuna vita sociale, così importante per loro. Gli abbandoni (quando gli esemplari non sono più utili alla caccia) e i maltrattamenti sono all’ordine del giorno, ed è sufficiente visitare i canili per rendersi conto che molti dei cani presenti sono setter inglesi o irlandesi, segugi e Breton. Un fenomeno che secondo l’Enpa (Ente Nazionale Protezione Animali) è in costante aumento.
  È quindi ancor più paradossale che a Rosolini (SR) sia proprio un’associazione venatoria a collaborare per la prevenzione del randagismo, segnalando – non si sa con quali modalità e con quali competenze – i cani senza microchip presenti nel territorio del comune siciliano: un episodio che, giustamente, ha visto la netta contrarietà delle associazioni e di tutti quei cittadini che si battono ogni giorno per la difesa dei diritti di tutti gli animali.

 

 
 
 Andrea Brutti e' esperto di tutela degli animali selvatici ed e' consulente di diverse associazioni animaliste nazionali; ha contribuito alla creazione del Centro Recupero Fauna Selvatica LIPU di Roma che ha gestito per 10 anni



Data: 12/02/2011
Autore: ANDREA BRUTTI
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