Miranda Magagnini, una delle prime eroiche maestre di scuola pubblica di cui ho raccontato nella puntata di questa rubrica di due lunedì fa (28 febbraio), col suo coraggio e la sua lucidità aveva dunque nei primi decenni del secolo scorso riscattato dall'analfabetismo e dall'umiliazione sociale un'intera generazione di figli di povera gente. A me che ero sua figlia oltre alle cose che una madre trasmette abitualmente insegnò a insegnare. Avevo vent'anni quando, alla stessa sua età tempo prima, intrapresi anch'io questo lavoro ereditario, nella mia famiglia. Fino allora avevo conosciuto gli aspetti esteriore del mestiere, la paga esigua, gli spostamenti in sedi spesso disagiate, il lavoro a casa con i compiti e la preparazione delle lezioni, e quei fasci di rose degli allievi, segnali di una possibilità di scambio d' affetto intenso e continuo.
Avevo capito che c'era qualcosa di straordinario nel rapporto tra chi insegna e chi impara. Ma non sapevo come si faceva. Così, la sera prima del giorno in cui dovevo entrare per la prima volta in un'aula scolastica come docente, andai da lei e le chiesi direttamente:
"Mamma, come si fa a insegnare?".
E lei mi rispose con sole tre parole: tre avverbi. Mi disse:
"Pochissimo. Pianissimo. Lentissimo".
La stessa brevità e concisione della frase era immediato esempio della prima idea. "Pochissimo": dunque poche cose , una sobrietà, una fiducia che poco basta , se questo poco è ben presentato, è ben messo in luce: una valorizzazione dell'essenzialità, della lucidità essenziale. E pochissimo per volta: dare il nutrimento a piccoli bocconi, non ingozzando farraginosamente, permettendo di soffermarsi con rispetto sul bene trasmesso: suggerendo di desiderare nella vita poche cose tenute bene anziché molte tenute male. Non tante conquiste da segnare con tante tacche sulla stanga del letto, tante donne conquistate da don Giovanni e poi abbandonate, tanti alberi piantati e poi abbandonati senza acqua, non serie di cuccioli comprati in aggiunta ad altri giocattoli e poi lasciati in casa soli, non tanti oggetti comprati e poi disprezzati subito dopo.
"Pianissimo": dunque scegliere una modalità gentile, un volume di voce rispettoso, non elettrico, non sopraffatore. L'insegnante accorto, l'oratore esperto, sa che abbassando la voce costringe gli altri all'attenzione, mentre i toni alti, da caserma, schiacciano il cuore degli spiriti tranquilli e civili. Mia madre a certi presentatori e soprattutto certe presentatrici urlanti della nostra televisione avrebbe messo certamente un meno tre. Tre in cattivo mestiere, pessimo gusto, stile brutto da vedere, e pessimo esempio.
"Lentissimo": mia madre era cresciuta negli anni Venti, quando il nuovo modello era la fretta, la velocità esaltata dai futuristi, dagli interventisti , dai nuovo veicoli che accelleravano innaturalmente l'immemoriale ritmo del passo d'uomo.
Il regime proponeva un modello di vita da marcia militare, sbrigativa e sommaria, dove chi restava indietro era spacciato; ma questa maestra in classe parlava lentamente, che vuol dire attentamente, evitando accuratamente il copione imperante della fretta, lo "Spicciati, spicciati! " che è un copione terribile perché sottintende il messaggio di fallimento:"Tanto non ce la farai mai". Quanta gente affannata che passa il tempo a dirti che non ha tempo perché deve fare o sta facendo questo e quello, quanta gente che coglie tutte le occasioni di occuparsi degli altri e non di se, quasi a dover dimostrare continuamente, quindi sempre senza successo, che sono bravi ed efficienti.
Mia madre con la sua calma, la sua lentezza, diceva invece ai bambini: "Tu hai già 9, in verità non hai bisogno di dimostrare niente a nessuno, né che sei bravo, né che sei bello, né che hai successo, perché il grande 9, anzi il 10, te l'ha dato la Vita, l'unica intitolata a dare il voto fondamentale, facendoti nascere: sei vivo, dunque hai diritto a tutte le cose belle della vita".
Gli scolari di mia madre certamente hanno tutti avuto buone vite e un fondo particolare di calma che ho visto depositarsi nei miei di allievi ai quali ho passato a mia volta questa idea. Tra le frasi memorabili che sentivano in classe la più favorita era questa del permesso già dato dalla vita: un permesso di perdono da un'unica colpa, quella di non volersi bene.
Mi colpiva da bambina la gentilezza, la vedevo rara, la sentivo speciale: gentilezza come come attenzione, "coprire una persona di attenzioni", diciamo, attenzione affettuosa, discreta, con simpatia e speranza; attenzione come offerta dei propri occhi che guardano "considerando" l'altro; considerare viene da "cum sidera", con le stelle, guardare le stelle, le caratteristiche e qualità, dell'altro: il vero amore, che è non fare delle cose per l'altro, ma riconoscere la specificità e qualità dell'altro:
Ranocchietto,
ti hanno riverniciato
tu pure?
dice a primavera l'attento poeta giapponese in un haiku famoso.
Attenzione come offerta della cosa più preziosa: la propria presenza senza invasività e passionalità.
Non sapevo che fosse esistito un mondo interamente gentile, e dove la gentilezza dei modi fosse un valore assoluto e totalmente condiviso, finché non ho incontrato Gengji, il Principe Spendente, il protagonista del primo romanzo del mondo , scritto nell'anno Mille da Murasaki Shikibu, dama di corte dell'antico Giappone nell'epoca Heian.
In questo libro, in cui non c'è alcuna guerra, uomini e donne si parlano con brevi poesie e mandandosi biglietti legati a rami fioriti, e la calligrafia e il ramoscello sono essi stessi messaggio; e i principi danno feste solenni per ammirare la fioritura annuale dei ciliegi e dei glicini che s'infoltiscono lenti in giardini remoti attentamente descritti con la loro atmosfera musicale di insetti mormoranti e con i loro cieli solcati da filari di anatre selvatiche migranti; e note di liuto si sgranano nelle notti di luna piena da dimore ove la presenza dei personaggi è svelata da discreti fruscii di seta dietro i paraventi di carta su cui si stagliano le ombre dei pini, e le figlie della bella Tamakazura giocano a scacchi per decidere chi sarà la proprietaria del vecchio albero di ciliegio carico di fiori bianchi. Rileggo periodicamente Gengji, il miglior tranquillante che io conosca; conoscendolo pressoché a memoria, lo apro a caso, come faceva Freud con la Bibbia ed Ernst Bernhard con I Ching, e da qualunque punto vado avanti remigando tranquilla; qualche parte del mio corpo gongola sottilmente, di sottecchi: è forse la voglia di vivere che si rimette in moto: tale è il potere della gentilezza:
"Bisogna essere gentili con le creature", ha ragione il Dalai Dama che così riassume il senso di ogni religione; ha ragione san Francesco:
"Laudato si, mi Signore, cum tutte le tue creature".
Non si tratta di "buonismo", o di nevrotica paura di affermare se stessi di fronte agli altri, o di missione, o di funzione, o dell'"aver tempo da perdere"; può trattarsi, invece, di buon senso di qualità superiore, se è vero che la vita è un circolo e che quello che ci circonda ci conviene orientarlo nella direzione dei nostri bisogni mettendo noi per primi in circolo ciò che desideriamo ricevere. Il sorriso che facciamo noi per primi a qualcuno, a un essere umano, a un animale, a un albero, "sorriso che rinfresca e rallegra", come vede Leopardi, è la "particella di luce in un grande buio" che intravede Keats, Gentilezza è la vecchia parola fraternità, condivisione, alleggerita da significati confessionali, all'appartenenza e rivendicazione da parte delle sette religiose. Gentile è un mondo dove non c'è aaautorità, nè un padrone, amante o condiscendente o avaro, nè alcun vessillo di sacrificio, nè di svalutazione.
"You may say I am a dreamer,
but I am not the only one"
ci conforta John Lennon.
A sei anni traversavo irresistibilmente la strada per andare a offrire una monetina al povero sul lato opposto, un vecchietto in divisa militare che tendeva un'acciaccata gamella di latta: un bisogno riparatorio, quello che in Giappone, ancora-il Giappone shintoista, che vede una divinità in ogni cosa, il cavallo e la peonia, il sasso e la sabbia, non il Giappone tardo, dei samurai- è chiamato WA: l'armonia totale, l'insieme di tutto ciò che esiste, la grande rete che siamo e in cui siamo. Lasciatemelo dire in versi:
Noi voliamo tutti insieme.
Non mai si smaglia la rete
- ricamo per noi troppo lontano
per non sembrarci nero-
che, ondulando lenta,
va pulsando nei cieli.
Noi siamo un'unica materia
arbitrariamente separata,
arbitrariamente vista
come separata.
Noi siamo
quell'unico specchio rotondo
scagliato nel cielo a frantumarsi
in piccolissimi pezzi.
Ora siamo qua
e siamo tanti noi.
ma la luce è la stessa.
L'altro, quell'uomo, quella bestia, quel filo d'erba, anche se non è mio, se non lo conosco, se non ha fatto niente per me, qualcosa fa: fa parte della mia vita, c'è, perché tutto ciò che mi circonda fa parte della mia vita.
E come nei dolci ci sta bene una punta di sale, così nella dolcezza di questo mio invito alla gentilezza insegnatami dai tre avverbi di mia madre-che tra l'altro devono aver ispirato la réclame di una celebre acqua minerale- , nella dolcezza di questo invito alla gentilezza, dicevo, vorrei offrire un pizzico, una ticca, di salato, di sapore altro: per dire che il gesto gentile che va a riparare che va a riparare uno squilibrio, un'offesa al vivente , che fa rabbrividire tutta la trama della grande Rete, è mosso non solo dal "wa", dall'istinto di riequilibrio, ma anche dall'attrazione che l'imperfezione, la sofferenza della zona disturbata, esercita: qualche peripezia ha disturbato la pace di quella persona, di quell'animale, di quel bosco, e in quel luogo della Rete che s'è allentato, che s'è smagliato, lì c'è, con lo "sporco" della sofferenza, un'occasione di farsi anima , di divenire ciò che si è, identità consapevole, come insegna Keats:
" ....che cosa sono le prove che il cuore affronta se non ciò che tempra e modifica la natura dell'uomo?".
Se non fosse che era vissuto quattro secoli prima, avrebbe potuto essere un allievo della maestra Magagnini lo scrittore Michel de Montaigne, una delle delizie del genere umano assieme all'imperatore Tito, a san Francesco e a pochi altri, questo gentiluomo francese del Cinquecento che, vissuto in mezzo alle orrende guerre di religione , riuscì a esercitare il suo mestiere di sindaco di Bordeaux con la massima benevolenza e imparzialità, trovando il tempo, in un'epoca in cui quelli del partito avverso andavano stanati e buttati direttamente dalla finestra, e nei tribunali la tortura era il metodo d'interrogatorio di routine, trovando il tempo, dicevo, di andare a controllare di persona come venivano trattati i bambini nell'orfanatrofio della città; come è stato che in quel secolo sanguinoso quest'uomo abbia proclamato la superiorità morale e intellettiva degli animali rispetto agli uomini, e abbia visto subito la soperchieria dei bianchi rispetto ai "selvaggi" d'America appena "scoperti"? Come è stato che finisce i suoi celebri "Essais", Saggi, con parole della massima gentilezza primaria, quella più difficile; verso se stesso, quando, somma vittoria, siamo riusciti a perdonarci dell'unico peccato, quello di non volerci bene abbastanza: "Per me dunque, io amo la vita e la coltivo quale è piaciuto a Dio concederla...Io accetto di buon cuore e riconoscente ciò che la natura ha fatto per me, e me ne compiaccio e ne sono contento. Si fa torto a quel grande e onnipotente donatore a rifiutare il suo dono, annullarlo e svalutarlo. Tutto buono, ha fatto tutto buono... Non c'è parte indegna della nostra cura in questo dono che Dio ci ha fatto".
Può essere nello spirito un'allieva di mia madre che amava la gentilezza e la bellezza la grande Giovanna Marini quando grida: "Voglio la bellezza!", voglio un mondo dove mi piace stare, voglio il sorriso, la luce, la bellezza , voglio fare e veder fare e ricevere gentilezza, che è più della tolleranza e più del rispetto, gentilezza rivolta a tutti, a tutto, alla terra e all'aria, all'uccellino , al filo d'erba, alla donna e all'uomo e a ogni condizione ed età. E se anche il tramatore di gentilezza resta solo, per un pò o per molto, bene, ecco una mia di gentilezza per lui, che forse sei tu, gentile lettore: ecco per te una poesia di Pier Mario Giovannone, l'arrangiatore e poeta di Gianmaria Testa.
Sappi che tutte le strade, anche le più sole
hanno un vento che le accompagna
e che il gomitolo, forse
non ha voluto diventare maglione.
La rubrica di Luciana Marinangeli per Il Respiro