Ah, la sinistra. Ti fa venire una voglia di votare… Ma è colpa di noi sabaudi (almeno, tanti di noi), ancora stupidamente affezionati alla coerenza…
La Regione Piemonte, ad esempio: recentemente ha chiesto di poter abbattere alcuni lupi in deroga alle norme comunitarie e nazionali. Non contenti, all’inizio dell’anno hanno approvato una legge forestale abnorme, che non solo - come denuncia Pro Natura – considera i boschi quasi esclusivamente sotto l’aspetto produttivo, mettendo in secondo piano tutte le altre funzioni, da quella di difesa del territorio dai dissesti idrogeologici a quella paesaggistica, dalla tutela della biodiversità alla capacità di regolare il clima, ma amplia il periodo in cui è possibile utilizzare i prodotti della foresta, soprattutto in primavera, con conseguenti, prevedibili danni sul rinnovo stesso del bosco, del sottobosco e dell’intero ecosistema (pensiamo in particolare agli uccelli che stanno nidificando su alberi che vengono abbattuti...).
Anche i criteri del taglio vengono estesi, permettendo interventi più pesanti e anche a scapito delle specie di maggior interesse naturalistico. Non è più previsto l’obbligo di rispettare una fascia a margine delle parcelle in cui si effettuano i tagli, area di grande interesse per la conservazione della biodiversità. Per interventi su aree inferiori a mezzo ettaro e dove le specie prevalenti sono castagno o robinia (situazione molto comune nella nostra Regione) non è più previsto salvare le matricine, cioè gli alberi adulti in grado di disseminare e contribuire così in breve tempo al recupero del bosco. Di conseguenza, questi boschi si trasformeranno, nel giro di pochi anni, in robinieti praticamente puri, stante la grande capacità di propagazione vegetativa caratteristica di questa specie (tra l’altro nemmeno autoctona: alla faccia della biodiversità).
Il Comune, certamente geloso di tanta lungimiranza e sensibilità regionale per quella che una volta si chiamava “qualità della vita”, ha risposto promettendo di sfregiare una delle aree verdi più belle di Torino, lungo il fiume: con una risicata maggioranza ha approvato la Variante 190 al Piano Regolatore, che trasformerà il Palazzo del Lavoro in un centro commerciale di 28.000 metri quadrati, moltiplicati su tre piani di esposizione e vendita. Le aree verdi intorno al palazzo verranno cedute dal Comune ai privati per realizzare parcheggi abbattendo circa 160 bellissimi alberi. Il verde in piena terra sarà sostituito da un po’ di verde su soletta.
Il grido di dolore di Pro Natura, e di tanti cittadini, è anche il nostro: ancora una volta pezzi di patrimonio pubblico, del Demanio Statale e del Comune di Torino vengono ceduti agli operatori privati, per un’operazione che contribuirà a mandare definitivamente in crisi il traffico e l’accesso alla città da Sud, che desertificherà il tessuto commerciale del quartiere Nizza-Lingotto e sottrarrà un’altra area verde all’uso pubblico, trasformandola in uno spazio commerciale. Inoltre snaturerà completamente un edificio di rilevante valore architettonico costruito per il primo Centenario dell’Unità d’Italia, che avrebbe dovuto essere conservato all’uso pubblico e recuperato per funzioni utili e di pregio (ad esempio attività universitarie).
Un altro pezzo di città pubblica viene alienato, per consentire alla città di vendere un’area verde al prezzo di 3.700.000 euro e di incamerare forse 7-8 milioni di oneri di urbanizzazione.
Bel dispiego di democrazia, bel modo per fare qualcosa di sinistra.
Speriamo ci ripensino: gli alberi non parlano e non votano, ma fanno bene allo sguardo, ai polmoni, ai pensieri. Aiutano a scrivere meglio, a vivere meglio, a godere la vita sul serio, di più. Sarà che stanno fermi e silenziosi (al contrario di tanti che si agitano inutilmente, che non hanno niente da dire e lo dicono lo stesso), sarà che sono legati al respiro, al godimento degli occhi, alla bellezza che aiuta a vivere, ma ne abbiamo sempre più bisogno. Invece ci propinano frenesia e mercantilismo, anticamera del “passo di corsa, dello schiaffo e del pugno”, a sua volta anticamera del fascismo.
Ma ci siamo accorti che i futuristi hanno vinto? Se l’inferno che abitiamo tutti i giorni, scrisse Calvino, ci offre una sola via d’uscita: “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, un barlume di salvezza, se non proprio di Paradiso (è una dura lotta, ci vorranno generazioni per vincere la carestia di senso che affligge le civiltà urbanizzate), potrebbe arrivare da un gesto semplice e simbolico, da intendere non solo in senso letterale – il gesto è fonte di piacere fisico e psicologico, “provare per credere”, ma anche metaforico: le piante vanno protette, seminate e piantate, rimesse al centro della nostra cultura.
Il primo libro che ho scritto l’ho dedicato agli alberi e ai parchi di Torino. Ero giovane, amavo incondizionatamente. Lo capisco sempre meglio, oggi, in compagnia di Ortega y Gasset: “I paesaggi hanno creato la metà migliore della mia anima; e se non avessi perso lunghi anni vivendo nella cupezza delle città, oggi come oggi sarei più buono e più profondo”.
Stringere a sé gli alberi (e stringerci a loro) significa offrire riconoscenza e protezione, ridar loro il posto che si sono conquistati nell’immaginario e nelle arti. “Non è artista – scrive Hokusai - chi non conosce la differenza tra le stagioni”.
Migliaia di anni fa siamo scesi dagli alberi e ora cosa facciamo? Passiamo gran parte del tempo a tagliarli e bruciarli. E’ ben vero che da diecimila anni abbiamo anche imparato a piantarli e ad accompagnarne la crescita, ma ciò avviene in misura assai minore. Un po’ di riconoscenza verso i nostri antichi alleati, dunque: ci si abbraccia tra amici, amanti e parenti, l’abbraccio a un albero significa ringraziarlo per quello che ha fatto e che continua a fare per noi: rende il suolo fertile e l’aria respirabile, mitiga gli eccessi del clima, fornisce legna, frutta, ombra e bellezza. Diceva bene Plinio il Vecchio: “Gli alberi sono il dono più grande fatto all’uomo”.
Alberi nel paesaggio, nel frutteto, nel giardino e nei boschi, in città e nel paesaggio. Alberi nella narrativa, nella musica, nell’arte. Alberi in Piero della Francesca e Shakespeare, in Constable, Cézanne e Giono; alberi nelle cattedrali romaniche e gotiche, nelle chiese barocche, nella musica di Vivaldi, di Beethoven, di Johan Strauss. Alberi in Dante, Ariosto, Proust, nelle liriche di Esenin e Montale.
E in Prévert, che per loro deponeva le amorose rime e imbracciava l’invettiva: “Disboscate, imbecilli, disboscate!”.