Questa parete vedeva nascere e morire il sole. Sembrava eretta per proteggere limoni, cedri e aranci. Di qui non urlava il vento. La tramontana si infrangeva contro lo spigolo della civetta, e si frantumava in lame che, giunte a ridosso delle piante, avevano perduto la loro terribile affilatura. Ma il nonno, per amore degli alberi, e scettico sulla mitezza dei refoli, nel pieno dell’inverno ricopriva con paglia e sacchi di juta i cedri dei quali andava fiero. Questa porzione dell’antica casa, si può dire che era benedetta, grazie alla congiunzione della luce proveniente da levante e ponente.
Una grande finestra dava sulla loggia che mio nonno aveva voluto aggiungere solo di recente, per potervi contemplare le vigne e la distesa marina. Ma era tutta la porzione di fabbricato che puntava il mare e i confini scoscesi della proprietà per la quale, nel corso di molte generazioni, si erano combattute guerre e tentate imboscate, e perpetrati tradimenti per poi giungere agli armistizi e alla proclamazione di una pace sempre temporanea.
Affacciati alla loggia, Colle di Pietra planava nelle pieghe del mare. Al mattino, gli occhi si spalancavano a una luce esplosiva, mentre, con il passare delle ore, il rosso degli aranci sembrava il canto di una sirena, come se il sentimento eterno potesse essere compreso da ogni singolo uomo.
In realtà il mare era molto distante. Ma dalla loggia lo si vedeva quattro dita largo. E gli aranci non cantavano un bel niente, ma mio nonno amava talmente quella terra che li sentiva, ed era sicuro che anche quella sponda del Tirreno, con il promontorio di Circe e le piccole isole, facessero parte integrante della eredità di Arcangelo, solo perché la loro luce gli toccava la fronte ora che poteva godere del panorama. Questo atteggiamento è quello di un sognatore. Ma è anche lo stato tangibile di una sensibilità. I vecchi contadini conoscevano la verità. Usavano tre parole. Però racchiudevano il tutto. Dicevano: “Questo è un ciliegio”. Ed ecco che l’albero spuntava e cresceva contro il cielo, assorbendo l’universo…
I monti Lepini erano a sinistra. Con una leggera foschia sparivano. Poi riemergevano cambiando profilo. A seconda delle ore della giornata, si avvicinavano e allontanavano. Ma il loro carattere era soprattutto barbaro e sorgivo. Al mattino ti stupivano con la loro presenza; verso sera si facevano azzurri e azzurrini. Anche lilla e viola.
Erano un magistrale separè tra il giorno e la notte. Quindi tra la morte e la vita.
Da grande, per gustare lo scenario, al crepuscolo partivo sull’antica via Appia. All’altezza di Priverno, dopo aver superato Sermoneta e Ninfa, era impressionante come a est, dietro i monti, verso Napoli, il nerastro stava avvolgendo ogni cosa, mentre a ovest, risalendo sulla costa, il sole era ancora in immersione schizzando arancio e pervinca.
I monti Lepini, dalla loggia del nonno, sembravano trattenere, con pura forza primitiva, il cielo, per poi liberarlo affinché si andasse a infrangere nel mare. Con la tramontana si trasformavano addirittura in giganteschi sipari fino dove la sabbia era più bianca e dove, un tempo, la palude, gli acquitrini e la malaria, avevano doppiato le distanze da nord a sud, da est a ovest…