Lo vedo parcheggiare davanti alla sede del parco e scendere da una jeep defender verde, con la scritta adesiva Guardiaparco sul finestrino posteriore e una paletta sul cruscotto. Giacca dello stesso colore della Jeep, pantaloni di velluto beige e binocolo zeiss a tracolla.
Né alto ne basso, non particolarmente magro né troppo in carne. Nessun segno particolare. L’enciclopedia vivente, il grande Norino di cui Marco mi ha tanto parlato, il mitico guardiaparco del Ticino, è un uomo normale che potrebbe fare l’impiegato, il falegname, l'elettricista, il tipografo, l’autista di autobus. Il suo nome però non si dimentica. Un nome antico. Un nome d’acqua, rotondo come un ciottolo e limpido come il luogo in cui è apparso la prima volta. Un nome alleato di aironi, volpi, folaghe, quercie, caprioli, pioppi e arborelle. Un nome preciso: sei lettere come il nostro fiume con cui fa anche rima. Un nome puntuale.
Vado incontro a questo nome di mezza età con la mano tesa e un buon presentimento. A volte bastano una stretta di mano e uno sguardo. I suoi occhi appuntiti, dietro gli occhiali di metallo, sorridono. Riconosco questo sguardo: è lo sguardo della passione civile e del rispetto per la “cosa pubblica”. Oltre alla passione Norino ha con sè guide, cartine e mappe del parco, ci promette incontri con persone speciali, video, molte fotografie e un luogo tranquillo dove bere qualcosa e parlare un po’ prima di iniziare i sopralluoghi. Saliamo sulla sua macchina e partiamo. Armato di altre cartine e delle sue lunghe gambe magre si è infilato sulla jeep di Norino anche mio padre. Quando attraversiamo il ponte sul Naviglio mi sembra di sentire una vecchia signora che ride sommessamente.
Mio padre mi strizza l’occhio e si accende una sigaretta. Norino si volta verso di me e mi ritrovo, in pigiama, nel salotto della casa di Monte Mario, a Roma; la casa dove sono nato e cresciuto. Ho dieci anni, sto per andare a letto e sono venuto a salutare gli invitati. Facce, sguardi, voci che di colpo tacciono. Il salotto è pieno, gremito come un teatro. Ci sono vecchi amici dei miei genitori e conoscenti visti una sola volta. Sono le facce, gli sguardi e le voci di quella gloriosa folla di personaggi che da Bolzano ad Agrigento, da Pescasseroli a S. Teresa di Gallura, si spendeva a fianco di mio padre per la difesa dei centri storici, delle coste e dei parchi nazionali minacciati dalla speculazione edililizia.
Norino mi ha riportato alla mente archeologhi, giornalisti, assessori, naturalisti, librai, urbanisti, amministratori, politici e gente comune accomunati dal rispetto per l’ambiente e la cultura del territorio. Le guardie del parco d’Abruzzo con cui seguimmo un branco di camosci saltare di balza in balza fino alla cresta più alta della montagna. Franco Tassi, il coraggioso direttore del parco, anche lui a bordo del nostro maggiolino Volkswagen quando un lupo macilento, affondando nella neve, ci attraversò la strada una sera d’inverno di molti anni fa. Mi ricorda il sindaco di Napoli Valenzi e il sindaco di Roma Luigi Petroselli. Preoccupazione, ironia, pessimismo e serenità, le luci e le ombre delle difficili battaglie che li aspettavano, convivevano sulle loro facce come in un cielo che cambia continuamente. Italo Insolera, Vezio De Lucia, Leonardo Benevolo, Vittoria calzolari, Maria Antonelli, Mario Fazio, Corrado Staiano, Vittorio Emiliani. Fulco Pratesi compagno di escursioni, grande ambientalista, raffinato disegnatore di tutti gli uccelli del mondo. Walter Frigo, Renzo Videsott e Francesco Framarin i direttori del parco nazionale dello Stelvio e del Gran Paradiso. Giuliano Prasca, un comunista dagli occhi dolci e la grinta di un carro armato, che occupava i campi incolti della periferia romana per salvarli dalla speculazione e organizzava partitelle di calcio con i ragazzini poveri del quartiere. Antonio Iannello da Napoli con le sue scarpe scalcagnate, la borsa di vilpelle marrone e il completo di cotone liso e sudaticcio di chi sta sempre in giro. “Sono Iannello” diceva al telefono, “c’è Cederna?” Poi a sorpresa piombava a casa con la borsa traboccante di carte e di documenti sottratti negli uffici dei comuni che tramavano loschi traffici urbanistici. Mio padre lo adorava e anche noi gli volevamo bene e ci piaceva guardarlo mangiare con quella sua faccia di gomma, grigia e furba, da malandrino delle buone cause.
Norino mi ricorda quelli che gli scrivevano o lo chiamavano al telefono, ogni giorno, per chiedere aiuto e ribattere colpo su colpo, denunciando abusi edilizi, sventramenti, tagli di vecchie piante, abbandoni di ville storiche, distruzioni di coste, di pinete, di pendici montane.
Come tutti loro, Norino è una di quelle persone civilmente “politiche”, appassionate di bellezza e di cultura, che ogni giorno si occupano in prima persona del bene pubblico senza perdersi d’animo di fronte agli ostacoli, le minacce, le trappole, l’ignoranza, l’illegalità, la malafede, l’omertà, il disprezzo e l’egoismo dei grandi e dei piccoli. Una boccata d’aria. Un pò di fiducia e di speranza per questo paese di condoni e villette.
“Siamo arrivati”. Norino parcheggia davanti ad un grande cortile tappezzato di tavolini di legno coperti da tovagliette di plastica a fiori. In fondo, sopra una porta a vetri, un cartello di legno: Circolo parrocchiale di Pontevecchio. “Qualcosa da bere?” “Una spremuta, per favore.” “Niente spremuta qui, solo bibite o succhi.” “Un succo di albicocca allora. Anzi no, un chinotto, per favore.”
Respiro l’aria fresca profumata di bucato, guardo i tavolini deserti, il cielo azzurro di una mezza mattina di fine inverno e mi preparo. Norino è la voce del parco, un altro traghettatore di storie.
La presenza silenziosa di mio padre mi intimidisce e mi emoziona. A volte io o i miei fratelli lo accompagnavamo a raccogliere i dati e le testimonianze per un articolo. Non succedeva spesso e quelle poche volte erano un’avventura indimenticabile. C’era il piacere di mettersi in viaggio, di dormire insieme in un piccolo albergo, mangiando in trattoria o qualche volta ospiti dei personaggi da intervistare. Durante i sopralluoghi, quando mio padre era alla guida, dovevo tenermi pronto a ricopiare per intero i cartelli delle nuove e vecchie lottizzazioni. Mi faceva posare di spalle nella fotografia di uno scavo abusivo. Ma soprattutto ero l’addetto alle mappe e alle cartine di cui era un appassionato. Imparai ad aprirle, a ripiegarle, a riaprirle al volo, in poco tempo e in qualsiasi situazione. Intanto mio padre scavava. Tra i racconti dei testimoni, il groviglio di leggi, piani regolatori, varianti, vincoli e delibere, mio padre, come un archeologo, scavava nella storia e nel destino dei luoghi e delle persone che era venuto a difendere.
“Ogni angolo del territorio è prezioso e insostituibile qualunque sia la sua importanza storica o naturale: le linee che in questo momento un qualsiasi tirapiedi sta tracciando sulla planimetria di un piano regolatore, nell’ufficio tecnico del più oscuro comune d’italia, sotto la pressione di forze altrettanto oscure, sono importanti per l’avvenire del Paese, sono “notizia” tanto quanto il vacillare del Colosseo, la costruzione dell’ennesima inutile autostrada, il crollo della scuola sulla testa degli alunni, l’epidemia dovuta all’inquinamento dell’acquedotto, lo sprofondamento di Venezia, la lottizzazione dell’ultima pineta litoranea.”
Scavava e prendeva appunti con una bic nera su un taccuino o un minuscolo bloc notes a quadretti.
Chiedeva puntigliosamente cifre, misure, riscontri concreti, spiegazioni. Chiedeva e richiedeva per essere sicuro di aver capito bene, di aver raccolto tutti i frammenti che avrebbero composto il corpo del suo articolo. Ricordo l’impegno degli intervistati, la passione con cui rispondevano domanda su domanda, scavando anche loro con mio padre.
“Un parco nazionale è un parco nazionale come una stazione ferroviaria è una stazione ferroviaria: o si attua in esso, sovrana e incontrastata, la conservazione della natura, della fauna della flora del paesaggio, o lo si degrada senza riparo e se ne annulla la funzione. Perché le cose cambino non c’è che continuare a battersi.”
Per una strana capriola del destino oggi, da questa parte del tavolo, a prendere appunti, a fare domande ad un guardiaparco, ci sono io. Non sono un giornalista, come sono finito qui?
“Vai avanti, non cincischiare, porca l’oca” dice mio padre. Porca l’oca! Da quanto tempo non lo sentivo. Un balzo all’indietro di trenta, quarant’anni. Mi gira la testa. Rido da solo. Norino è tornato con un vassoio: un chinotto per me e uno per lui. Il riflesso sulla tovaglia di plastica gli ha scurito le lenti fotosensibili degli occhiali. Si siede e aspetta. “Dai, dai, dai…” Mio padre tamburella con le dita sul tavolino. Non sono ancora pronto. Il sole sta picchiandomi sul centro della testa. Devo spostare il tavolino all’ombra, almeno la mia metà. “Dai, cominciamo” sussurra mio padre tra i denti accendendosi la seconda sigaretta della mattina. Mi faccio coraggio, apro il taccuino a quadretti, impugno la penna Bic e comincio a scavare.
“Il bello dell’archeologia è che la scoperta di un oggetto antico è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perché dimenticato da noi; come ritrovare una cosa che ignoravamo di avere perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci sia necessaria.”
Norino racconta la storia di un ragazzo selvaggio che passava ore nei boschi dell’appennino, arrampicato sugli alberi come il Barone Rampante. Quel ragazzo selvaggio era finito a lavorare in fabbrica, ma la sua vera passione era fotografare la natura. “Tutto cominciò con un fiore- stavo fotografando un anemone- quando una farfalla si posò sul fiore e, qualche secondo dopo, una cinciallegra si mangiò la farfalla. Da allora non smisi più. Appena poteva tornavo nei boschi con la mia macchina fotografica. Un giorno, quasi per caso, decisi di partecipare al “concorso pubblico per Guardiaparco nel Parco della valle del Ticino”. Ero un autodidatta ma arrivai secondo e vinsi. Mettermi a disposizione di un pezzo di terra, di fiume, di storia? Difendere l’acqua e gli animali del fiume azzurro? Non potevo crederci. Da un giorno all’altro decisi di cambiare vita. Rinunciai a quattrocentomila lire di stipendio ed eccomi qui. ”
Norino racconta che quando è arrivato, la situazione del parco era drammatica. Bracconaggio, pesca di frodo, macchine dappertutto, nessun rispetto per i divieti. Erano i primi anni ’80, gli anni di piombo, li chiama.
“All’inizio era la guerra, ti mettevi sul terrazzo e dicevi: chi voglio ascoltare questa sera? Quelli di Vigevano, di Abbiategrasso, di Bernate o di Sesto? Sparavano da tutte le parti. E allora ho cominciato a travestirmi. Come nei film. Auto privata, occhiali scuri, macchina fotografica a tracolla, andavo lungo il fiume e fotografavo. Preparavo con i miei colleghi il piano d’attacco finchè scattava la retata. Ma tu sai quanta gente rispettabile ho visto scappare e buttarsi a nuoto nel Ticino anche d’inverno? Ci sarebbe stato da ridere se non fosse che molti erano personaggi noti, professionisti incensurati che alla fine ti pregavano in ginocchio di chiudere un occhio, come avevano sempre fatto le guardie prima. Perché questa era la norma: tu mi dai un fagiano, un’anatra, un pesce e io chiudo un occhio. Bisognava reagire, darsi da fare, combattere se necessario. Come quella volta in cui ho affrontato una banda di motociclisti all’interno di una zona vietata. Scappano tutti tranne uno. Ha il casco integrale, che non si leverà mai, ma gli chiedo i documenti e lo denuncio. Lui mi minaccia: minacce gravi, pesanti. Io nulla. Tranquillo. Lo affronto sotto casa, sul lavoro, sui pontili, sulle rive del Ticino. Alla fine mi ha chiesto scusa. Erano piccole guerre di nervi, di potere sul territorio. Era necessario farle.”
Norino spiega che il Parco all’inizio era terra di conquista. Terra di tutti e di nessuno. Chi andava a legna, chi a caccia, chi a funghi. Chi a pesca con la macchina parcheggiata direttamente sul fiume.
“Fare entrare nelle nostre teste l’idea di un parco naturale non è facile come sembra.
Ti racconto una storia. E’ la metà di giugno di circa 20 anni fa. A Boffalora tra i sassi del greto, quell’anno nidificava una grande colonia di sterne. Mettiamo i cartelli e copriamo i nidi più esposti con sassi e radici in modo che le macchine non potessero schiacciarli. Una mattina proprio sul ghiaione, ti trovo questo tipo con la canna da pesca e il suo bel fuoristrada dietro le spalle. Comincio gentilmente a spiegargli che siamo in un parco naturale, in una zona protetta, c’è tanto di cartello di divieto di accesso, non si può entrare in macchina e deve andarsene. Mi manda subito a quel paese. Allora sempre educato e gentile gli dico che sono la guardia del parco, che devo far rispettare la legge. Gli faccio vedere le sterne, decine di sterne spaventate che volano da tutte le parti, i loro nidi con le uova. Lui li guarda, ci pensa un attimo, e sai cosa è stato capace di rispondermi?
“Ma proprio qua? Proprio a me devono venire a rompere i coglioni queste… come cazzo si chiamano… queste sterne? Ma che vadino da un’altra parte” Si è rimesso a pescare e io, con pazienza, ho ricominciato a spiegargli che doveva almeno spostare la macchina.”
Norino racconta che ci sono voluti dieci anni per raccogliere finalmente qualcosa. Per veder crescere l’amore e il rispetto per il parco. Dieci anni di incontri, scontri, ma soprattutto di pratica del racconto ambientale. Migliaia di lezioni pubbliche, il coinvolgimento diretto di scuole, biblioteche, associazioni, la creazione di percorsi guidati.
“Gestire un parco è soprattutto informare, far conoscere, trasmettere la passione della bellezza e mantenere vivo il nostro bisogno di natura. Ai bambini, ai ragazzi, ma anche agli accompagnatori adulti dico sempre che il parco è qui e ovunque. Il parco è ovunque. Basta fare attenzione, guardarsi intorno con occhio acuto e curioso. Assumersi la responsabilità dei propri comportamenti. Interrompere il ciclo dell’omertà. Vedi qualcosa che non va? Dillo. Trovi un animale ferito? Soccorrilo. Occupiamoci in prima persona delle piccole cose: dal raccogliere la lattina buttata per terra, al ripulire gratis, solo per il piacere di farlo, una spiaggia, una riva, un sentiero. E’ una rivoluzione. E funziona.”
Nel parco ci sono circa mezzo milione di abitanti, residenti in 47 comuni. Ma quelli che dalle città intorno, da Vigevano, da Busto, da Legnano, gravitano sul suo territorio, sono molti di più. Ed è questa la sfida. Far convivere l’uomo e la natura. Una straordinaria biodiversità, compressa miracolosamente in pochi chilometri di fiume, e la densa, antica, presenza dell’uomo sulle sue rive. Parco significa alleanza e pianificazione. Alleanza tra agricoltura allevamento ed ecosistema naturale, panificazione intelligente del territorio.
“Perché il parco sopravviva, perché la sfida sia vinta bisogna garantire questa difficile, ma non impossibile, convivenza. Se le specie cominciano a morire, muore anche il parco. E moriamo un po’ anche noi.”
L’acqua del fiume azzurro è una macchina del tempo, è la memoria del territorio. L’anima liquida di questa terra. Canali, navigli, centrali idroelettriche, sbarramenti.
“L’acqua viene succhiata, deviata, incanalata, sbarrata dalla diga della Miorina che regolamenta il livello del lago Maggiore. Ma l’acqua è la vita del parco. Senza la giusta quantità d’acqua la vita sul fiume è in pericolo. Già nel milleseicento si combatteva per l’acqua necessaria alla navigazione e alla pesca. Oggi l’acqua serve alla biodiversità animale, alla salvaguardia delle specie in pericolo: la trota marmorata, il pigo, lo storione. Quanto vale in termini economici una specie? E la vita di un animale? Un airone di questo parco, un airone ucciso, che valore ha? Ti racconto un’altra storia. Un giorno scopro che qualcuno- non ti dico chi per non crearmi dei problemi- sta abbattendo un bosco di ontani. Hanno un permesso mi dicono, ma quei deficienti non si sono accorti che l’ontaneto è anche una garzaia, una colonia di aironi. Ma come, vedi i nidi a terra, con dentro le uova e i piccoli che cadono da tutte le parti e continui a tagliare? Sei un disgraziato. Ventiquattro aironi morti. Ventiquattro volte disgraziato. C’è stato un processo e l’ho vinto. Hanno pagato i danni almeno. Ma il problema legale era: quanto vale la vita di quegli aironi? Non lo sapeva nessuno, nessuno si era mai posto il problema. Non erano fagiani, né lepri, nè conigli. Quello che non si mangia, per la legge non vale nulla. Quel giorno io avevo raccolto un piccolo ancora vivo, me lo sono portato a casa, l’ho curato e allevato. Ero sua madre: gli ho dato un nome, Rocco, il nome del mio figlioccio, gli ho insegnato a mangiare da solo, ogni mattina andavo a comprargli il pesce fresco e non puoi immaginare quanto mangia un giovane airone. Ogni giorno tenevo il conto delle spese. L’ho mantenuto per settantadue giorni, finchè Rocco non è diventato autosufficiente. Poi, una mattina, dalle parti della Zelata, con Daniela una mia collega, l’ho liberato. A quel punto ho fatto il calcolo dei miei costi e l’ho moltiplicato per ventiquattro: più o meno trentacinque milioni di vecchie lire. Quell’airone mi era costato più di un milione e mezzo, ottocento euro.
Una volta si parlava di costi ambientali, ricordi? Si discuteva dei costi pagati dalla collettività in termini di qualità della vita, inquinamento, malattie, disastri, frane, alluvioni. Oggi rispettare l’ambiente è tornato ad essere un lusso. Ma è sempre più vero il contrario.”
“Conservazione della natura significa soltanto alla fine conservazione dell’uomo e del suo ambiente. Sono i conti sbagliati della nostra economia e della nostra politica che vanno riveduti e corretti. O forse sono economiche le perdite di migliaia di miliardi causate dalle alluvioni provocate dalla nostra insipienza? Forse sono un beneficio economico gli incalcolabili danni alla salute causati dall’inquinamento e dalla mancanza di spazi naturali per la ricreazione pubblica? Forse è economico il dissesto della montagna, il disboscamento, lo scempio delle coste, la dilapidazione, lo spreco, la degradazione di ambienti unici e insostituibili?”
Norino racconta le battaglie contro la lobby delle prismate, i blocchi di pietra e di cemento per proteggere le rive dalla corrente. Negli anni ’80 e ‘90, per i proprietari delle terre e per le società che vincevano gli appalti, le difese spondali erano diventate un vero e proprio affare: una prismata costa un milione di vecchie lire al metro lineare. Mille metri un miliardo.
“La divagazione del Ticino c’è sempre stata e sempre ci sarà. Un fiume è vivo, ha un corpo che –entro certi limiti- deve essere lasciato libero di crescere e di andare dove vuole. Il suo letto è mobile. E il parco ha il merito di non aver fatto più costruire difese spondali dove non ce n’era la necessità. Altro merito e stato combattere l’escavazione. “Serve a pulire il fiume” dicevano, balla massima! L’escavazione provoca danni gravissimi all’equilibrio idrogeologico e ambientale del fiume, ne abbassa il letto impoverendo d’acqua le rive, facendo morire i boschi e mettendo in grave pericolo la sopravvivenza delle specie che nidificano o depongono le uova sul greto.”
C’è stato un momento in cui alcuni comuni tra cui Motta Visconti hanno chiesto di uscire dal Parco.
“Volevano abbandonare, tornare alle vecchie regole, cioè l’anarchia e la terra di nessuno. Siamo stati capaci di andare a casa del nemico e di parlargli. Abbiamo ascoltato, discusso, spiegato”, dice Norino. “ Ricordo bene il primo incontro con Marco: sono andato da lui e guardandolo negli occhi gli ho detto -sono il nuovo guardiaparco, dobbiamo trovare un modo per lavorare insieme- mi ha guardato come se fossi un pazzo. Non l’ho più mollato. Fiume, lanche, canali, boschi. Abbiamo cominciato a girare il parco, a viverlo insieme, a raccontarcelo, ognuno alla sua maniera. Da lui ho imparato moltissimo. Ho imparato che c’erano delle regole, regole ferree, non scritte, che controllavano la pesca e la caccia sul fiume e nelle riserve dei signori, persino il bracconaggio. Non si intacca mai il capitale, solo gli interessi. Un bracconiere stupido fa danni incalcolabili e va fermato. E ho capito che il primo guardaparco era proprio Marco. Anche lui come me, era un ex ragazzo selvaggio. Anche lui aveva la passione e amava il fiume. Ma i tempi sono cambiati, gli ho detto. Se vuoi ancora vivere del tuo fiume, il fiume deve essere vivo, l’acqua, gli animali, i pesci, le piante devono essere protetti. Tu hai bisogno di un alleato: il parco. Io ho bisogno di te. E Marco che, prima di tutto, è un uomo pratico ha capito. E mi ha dato una mano. Non è stato facile convincere gli altri ma alla fine ce l’abbiamo fatto. Mi ha invitato nel suo locale, mi ha parlato di suo padre, mi ha raccontato la sua storia e io gli ho raccontato la mia. Da allora siamo diventati amici”.
Di stagione in stagione, di ansa in ansa, il racconto di Norino ha raggiunto le gambe sottili del nostro tavolo. E adesso si appresta a tirare le somme. Il cortile si è riempito di giocatori di scopa, scopone e briscola, e quella che prima era una quieta, silenziosa, corte lombarda si è trasformata in un serraglio. Tavolini di pensionati che urlano, fischiano, imprecano, ridono, battono le carte sul tavolo, abbaiano. Vorrei che almeno per oggi il racconto si fermasse qui. Faccio fatica a sentire la sua voce e mi fa male la mano a furia di scrivere. Sono stanco. In realtà ho paura di quello che ancora deve raccontarmi. Ho paura che anche lui, il grande Norino, mi dica che stiamo arrivando al capolinea. Che nonostante tutto l’idea del parco è stata, o sta per essere, sconfitta. Ho paura che racconti l’erosione lenta, inarrestabile, di quello che sembrava un patrimonio acquisito di modernità e di civiltà: il bisogno di verde pubblico, la necessità di proteggere noi e i nostri figli dall’inquinamento e dal degrado ambientale. Ho paura che mi parli della vergogna dei condoni e delle nuove, orrende, leggi sempre in agguato: leggi contro il diritto all’acqua, contro i parchi, contro la pianificazione del territorio. Ho paura del cemento spacciato come risposta alla crisi e alla disoccupazione. Ho paura della nostra abitudine alla microcorruzione, la corruzione nel sapere che in Italia da sempre le regole si aggirano, che basta aspettare e farsi furbi. Mio padre di fronte alle difficoltà reagiva battendosi come un leone. Io mi deprimo. Negli anni del boom edilizio, della speculazione più vergognosa, aveva scritto pagine di fuoco contro i vandali e la mollezza morale e conformista del nostro paese. Quando il peggio è vicino, vado a rileggermele.
“Di argomentazioni generose o garbate, di ragionamenti illuminati e logici, i vandali se ne infischiano: si illude chi crede di persuaderli politicamente, diplomaticamente, assennatamente. E’ necessario combatterli duramente, apertamente, giorno per giorno, senza perdere una sola occasione, con parzialità e passione e intransigenza. Occorre indagare, annotare pazientemente fatti e notizie, scempi costruzioni distruzioni intenzioni follie progetti. In attesa di tempi migliori è bene servirsi dei mezzi a disposizione, quali la incessante campagna di stampa, la polemica acre e violenta, la protesta circostanziata e precisa, lo scandalo sonoro. In un paese di molli e di conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.
Ogni volta mi stupisco della sua grinta, del fuoco della sua scrittura. E mi chiedo come ha fatto a scrivere centinaia di articoli sullo stesso argomento, per più di quarantacinque anni, senza mai perdere il coraggio e la voglia di battersi ancora. Senza mai perdere la speranza. D’accordo, ha ottenuto risultati importanti e molte battaglie sono state vinte. Con le parole precise e infuocate dei suoi articoli ha salvato dal cemento interi pezzi di città, di costa, di bosco, di montagna, di storia. Ma è stata dura. Alzo gli occhi dai miei appunti e incrocio lo sguardo di Norino. Sorride e annuisce. Non è un caso che io sia qui a parlare con lui. Forse sono state proprio le persone come Norino, a dare la forza di scrivere e di combattere a mio padre; a farlo sentire parte di un movimento di opinione e di azione sul territorio, la voce di un’esperienza e di una preoccupazione comune a migliaia di uomini e di donne.
“Purtroppo non ho conosciuto tuo padre ma porca miseria se ne avremmo bisogno, oggi, di uno come lui! Che alleato sarebbe. La domanda è: lo farebbero scrivere?”
Dal giorno della sua morte, questa domanda l’ho sentita centinaia di volte e mi rattrista. Norino se ne accorge. “Comunque non bisogna abbattersi. E’ vero, la situazione è dura, talvolta mi sembra di ripartire da zero, di essere tornato in trincea. Talvolta mi prende lo scoramento, l’amarezza, ma non sono ancora stanco. Fare il guardiaparco non ha più nulla di romantico ma non bisogna mollare. Mai dire ce l’abbiamo fatta, questo risultato l’abbiamo raggiunto, mai. Sono il più anziano guardiaparco ancora in servizio, dovrei andare in pensione e invece no. Non è ancora il momento.
Ho ancora voglia di vendere cara la pelle. La mia e quella del parco. Ho due speranze. La prima è che si evolva la specie dei politici. Ma tu ci credi? Neanche io, purtroppo. Anzi, non fa che regredire. Non lo scrivere questo. Ma si, invece, scrivilo. La speranza che la politica ci aiuti a migliorare la nostra vita non deve morire.
La seconda è una speranza più concreta, più reale. Sono le migliaia di persone che parlano la lingua del parco: associazioni, cittadini, biblioteche, oratori, parrocchie, scuole, insegnanti, famiglie. Dobbiamo fare tutti la nostra parte.”
Quando Norino si interrompe la campana di Pontevecchio batte dodici rintocchi e mezzo.
E’ il segnale: il cortile si alza in piedi e si svuota in pochi istanti come una classe quando suona la campanella. Ritorna il silenzio e l’odore di bucato.
Mio padre, tranne le poche volte in cui mi ha passato i frammenti dei suoi articoli, è rimasto immobile, in ascolto, ad occhi socchiusi, dirigendo il tempo del racconto di Norino con la sigaretta. Lo stesso lento, elegante movimento che vidi fare a Frank Zappa in un concerto di tanti anni fa. Solo che Frank Zappa in mano aveva un cannone di marijuana lungo venti centimetri. Mio padre e Frank Zappa, l’uno accanto all’altro. Chi l’avrebbe mai detto? Morti tutti e due, riuniti dalla storia di un guardiaparco lombardo. “I morti non sono morti, sono solo invisibili” dice Sant’Agostino sedendosi tra noi. Mio padre, Frank Zappa e Sant’Agostino. Che sia questo il tesoro, l’ennesimo regalo di questo giorno di viaggio?