Il vostro bimbo siede davanti a un bicchiere di latte, voi ordinate un cappuccino al bar. In quel liquido bianco che sa di maternità e conforto non può esserci niente di male, né le confezioni industriali in cartone, plastica o vetro suggeriscono altro che lindore. Di certo sapete che la bevanda viene estratta da corpi animali, ma forse non vi siete mai domandati come.
Un capannone lungo cento metri e largo sessanta accoglie duecentoventi mucche, ciascuna rinchiusa in un box ove le è impossibile girarsi, con il muso rivolto alla mangiatoia in cui di continuo vengono rovesciati mangimi stimolanti e di promiscuo assemblaggio. Ognuna di esse ogni stagione partorisce e un istante dopo le viene sottratto il piccolo. Se maschio, questi è destinato alla filiera della carne. I meno sani finiranno subito al macello per diventare cibo per cani o gatti, macinato a uso umano o caglio, estratto dagli stomaci e indirizzato alla produzione di certi formaggi. Ai più sani, prima di essere uccisi, si concede un anno per ingrassare in soffocanti recinti, sempre al chiuso. Le femmine in genere vengono tenute, per subentrare verso i diciotto mesi alle madri, le quali anziché vivere trenta o quarant’anni come potrebbero, muoiono a tre o quattro, sfinite dal ritmo della suzione.
In ogni caso anche i vitellini sono subito isolati in box a parte e attaccati a poppatoi artificiali. Il latte a loro in origine destinato viene munto dalla mucca due, anche tre volte al giorno, per ottenerne un quantitativo che varia dai trentacinque ai settanta litri a testa.
A questi animali docili e sensibili non è mai concesso di vedere il cielo, muovere un passo o avere un contatto spontaneo con un proprio simile. Di contro, sono sottoposti a continue vessazioni, come la pulizia delle fiande eseguita senza alcun garbo in spazi tanto esigui.
Quando una mucca da latte si accascia, più economico lasciarla morire da sé che non curarla o sopprimerla. Qualsiasi somministrazione di farmaci sarebbe in contrasto con l’utilizzo successivo del suo corpo, né gli allevamenti sono autorizzati all’abbattimento diretto. Viene dunque abbandonata alla propria sorte, con le mammelle che scoppiano di dolore per la mancata mungitura, in un’agonia che può durare parecchi giorni.
Negli Stati Uniti la quasi totalità dei vitelli è allevata su larga scala per la macellazione infantile, dentro gabbie di centocinquanta centimetri per sessanta, con pavimento di nude assi di legno. Isolati, senza potersi muovere né pulire, i piccoli vengono nutriti con una poltiglia priva di ferro e fibre per mantenerne bianca e pregiata la carne. Tutti sofferenti di anemia subclinica, consumano denti e pelo mordendo le grate e leccandosi per sopperire alle carenze vitaminiche e affettive. Riempiti di ormoni e antibiotici per crescere in fretta e per prevenire o piuttosto arginare l’insorgere di malattie e infezioni come dissenteria, polmonite, tricofizia, ulcere o setticemia, all’età di quattordici settimane, troppo atrofizzati anche per camminare, vengono stipati a centinaia sui camion per compiere viaggi anche molto lunghi verso i mattatoi.
Nella zoofila Gran Bretagna, circa l’80% della carne di manzo è un sottoprodotto dell’industria lattea e ogni anno centosettantamila vitelli muoiono prima del compimento dei tre mesi a causa di incuria e maltrattamenti durante i trasporti e nei mercati.
Tutto questo perché la carne, secondo il sentire comune, piace e fa bene. E poi aiuta i bambini a crescere. Se davvero si avesse a cuore il loro sviluppo, ci si preoccuperebbe in primo luogo di educarli alla conoscenza, alla gentilezza e alla pietà, anziché parcheggiarli davanti al televisore o ai videogiochi - alcuni capaci com’è noto di generare crisi epilettiche - o di lasciarli preda delle mode e dei costumi paralizzanti per l’intelletto, imposti da multinazionali che gestiscono le masse umane proprio come quelle animali: in batteria.
Negli anni Cinquanta in Italia si consumavano pro capite diciotto chilogrammi di carne l’anno, oggi si è arrivati a ottantacinque; paesi del Nord Europa raggiungono i novanta. Una simile quantità di prodotto non può essere ottenuta con i tradizionali metodi di allevamento estensivo, ma solo attraverso un uso serrato di quello intensivo. Per ottenere ottantacinque chili di carne a testa dunque occorrerebbe destinare alla coltivazione dei cereali un territorio pari, nella sola nostra penisola - che accoglie nove milioni di bovini, altrettanti di suini, dodici fra ovini e caprini, cinquecento di polli da carne e cinquanta di galline ovaiole - a settantatre milioni di ettari. Benché si ricorra a un’alimentazione alternativa fatta di mangimi e composti, tale sistema preme in favore delle più congeniali monoculture, che stravolgono biodiversità e paesaggi. Se ci si fa caso, eliminati con cura gli alberi, dalla Pianura Padana all’Appennino corre ormai una sterminata distesa di mais di cui si raccolgono dieci milioni di tonnellate annue. Per ciascuna di esse sono impiegati mille litri d’acqua, per un totale di cento miliardi di metri cubi della medesima, in aggiunta a dodicimila tonnellate di fertilizzanti, erbicidi e pesticidi. Del resto una mucca da latte, per mantenere il ritmo, deve bere duecento litri d’acqua al giorno; un bovino e un suino all’ingrasso, rispettivamente cinquanta e venti.
D’altro canto, a qualcuno verrà pur in mente che in altri capannoni si allevano fra i venticinque e i centoventicinquemila polli senza ritmi naturali, né sole né notte ma luce artificiale sotto cui gli animali rimangono ventitré ore quotidiane perché non smettano di nutrirsi e raggiungano il peso adatto a circa trentacinque giorni dalla nascita. A quel punto polli e tacchini vengono uccisi. Non si potrebbe fare altrimenti, poiché né le ossa né i tendini, in un’inesistente prospettiva, sarebbero in grado di sostenere il peso abnorme dei petti di tali deformità genetiche messe a punto nei laboratori zootecnici. Il settore avicolo industriale vanta procedure ingegnose come quella di sparare i volatili per mezzo di apparecchi ad aria compressa dentro microscopiche gabbie, che si spalancano solo al macello. Negli allevamenti l’igiene, per quel che si può, viene ottenuta chimicamente. I mangimi sono frutto di forzature e se non intervenisse il continuo uso di farmaci gli animali morirebbero prima di rendersi utili. Di conseguenza, nei loro corpi batteri e virus si fanno più resistenti, per diventare pericolosi, talvolta letali al momento di entrare a contatto con l’uomo. A quanti genitori è capitato in tempi moderni di veder sviluppare prematuramente il seno in bambine di cinque, sei anni, e di sentirsi raccomandare dal pediatra di escludere subito il pollo dalla dieta?
Sarebbe folle supporre che l’aver fondato e forzato tanta economia nello sfruttamento di una risorsa con voce e respiro non abbia conseguenza sulla salute delle persone. Dalla sindrome BSE all’influenza aviaria, molti indici sono puntati sulle modalità deformi di un sistema teso solo a incrementare i guadagni, senza considerare che il pollo, la mucca, o il coniglio, le intelligentissime scrofe chiuse coi piccoli dentro vani striminziti e all’occorrenza immobilizzate con cinghie anche per molti mesi, da quando nascono a quando vengono uccisi sono vivi.
Lo stesso propagarsi dei morbi, anche una volta conclamati, non frena che in apparenza la corsa agli affari. L’individuazione del primo caso di BSE, l’encefalopatia spongiforme bovina nota come malattia della mucca pazza, risale al 1986. Una speciale commissione impiegò cinque anni per convincere il governo USA a vietare la dispensazione di farine ricavate da carcasse di animali malati agli erbivori. Oltre alla carne, accade spesso che i mangimi contengano olii esausti e scarti di conceria. Nell’estate del 2005, in Cina, lo streptococco suis ha ucciso ufficialmente diciannove persone: è un batterio comunissimo negli allevamenti di maiali, che per probabile abuso di farmaci e trascuratezze igieniche e alimentari lì si è potenziato, diventando più patogeno.
Si è tanto attribuita la diffusione dell’aviaria agli uccelli migratori, senza tener conto che un volatile affetto dal virus non è in grado di compiere grandi spostamenti. Non si è mai sottolineata, piuttosto, l’eventualità di manchevolezze nel controllo del commercio avicolo. E’ davvero così difficile che qualcuno, approfittando del crollo dei prezzi, acquisti per cifre irrisorie pollame in luoghi a rischio e lo smerci illegalmente altrove, senza dichiararne la provenienza?
Se i paesi ricchi operano in modo spregiudicato, la cura di quelli più arretrati in merito al trattamento da riservare agli animali è pressoché nulla. Sempre più allevamenti intensivi dell’Europa centro occidentale vengono trasferiti nei paesi dell’Est, dove si abbattono costi e scrupoli. Mentre in Asia i peggiori stratagemmi produttivi moderni si sovrappongono a una mentalità arcaicamente crudele.
Senza andar lontano, e nemmeno riferendosi a deformità dell’ingegno della portata del foie-gras, per cui il fegato di un’oca deve gonfiarsi a forza di venti volte in altrettanti giorni affinché il buongustaio spalmi sulla tartina la cirrosi epatica dell’animale, da noi alle galline ovaiole di batteria due volte nella vita - appena nate e poi a sette settimane, poiché può ricrescere - viene tagliato il becco con un attrezzo dotato di lama rovente. Questa trincia il tessuto sensibile fra la parte cornea e l’osso, causando atroci dolori cronici e mutilando l’animale che non può mai più normalmente nutrirsi, pulirsi, lisciarsi il piumaggio. L’operazione viene compiuta per arginare il convulso beccarsi da stress cui le galline si abbandonano in prigionia. Inoltre, così menomate, esse consumano meno cibo e non sprecano energia. Ammassate dieci alla volta in gabbiette di ferro, angosciate e irrequiete, a causa della perdita di calcio che finisce nel guscio delle uova sono afflitte da una forma di osteoporosi da reclusione nota come sfinimento della gallina ovaiola. Milioni di uccelli finiscono paralizzati, morendo di fame e sete senza riuscire a raggiungere il cibo e l’acqua che hanno dinnanzi.
A causa delle necessità di avere uova fertili da cui far nascere nuove galline, quando non avviati a diventare galletti negli allevamenti intensivi da carne, infiniti pulcini maschi di appena un giorno vengono uccisi perché in eccesso, magari per finire nei fertilizzanti: in Gran Bretagna ogni anno si parla di trentacinque milioni di uccellini eliminati.
In molte regioni, soprattutto in America Latina, per trovare nuovi spazi l’industria dei corpi animali incoraggia vasti disboscamenti, rivelandosi inquinante per il globo in ogni senso. Nel solo bacino idrografico del Po ogni anno vengono riversate centonovantamila tonnellate di deiezioni dei soli ovini e suini. Una mucca da latte produce l’anno centottanta quintali di fiande, pari a trenta volte il proprio peso. A causa dell’alimentazione innaturale, le feci degli animali d’allevamento intensivo sono piuttosto liquide, miste all’acqua di lavaggio dei capannoni e contenenti i residui di una serie di prodotti chimici fra cui gli antibiotici e i promotori di crescita, ovvero gli ormoni, dispensati a piene mani. Senza grandi difficoltà tali sostanze possono contaminare le falde acquifere e finire anche nei vegetali coltivati a uso alimentare.
Nel 1994, dopo un decennio in cui si continuava ad attribuire buona parte dell’aumento dei gas serra alle emissioni gassose di pecore e mucche, in Nuova Zelanda è stato istituito un dazio per gli allevatori, subito soprannominato tassa sui rutti. Ovini e bovini, presenti lì nei rispettivi termini di otto e quarantasei milioni di capi, diffondono gas metano, dall’impatto nocivo ventitré volte più significativo dell’anidride carbonica. Nel mondo, le medesime specie da allevamento si contano in un miliardo e cinquantasette milioni e un miliardo e trecento milioni; tutti insieme producono un quinto delle emissioni globali di metano.
Infine, il mercato della carne grava in modo sostanziale sulla questione della fame nei paesi in difficoltà. A conti fatti, a rimpinzare tutti questi animali è indirizzata una quantità di cereali e granaglie che sarebbe sufficiente a sfamare ogni anno otto miliardi di persone: gli abitanti del sud povero del pianeta. Ma la carne rimane alimento destinato al ricco, grasso nord, che ogni giorno è più malato senza accorgersene.
Da "La pelle dell'orso" di Margherita d'Amico (Mondadori 2007)