Rinnovabili senza se e senza ma: o sarebbe meglio, anche, sostenibili? Per dieci anni disinformazione e ignavia hanno trasformato le rinnovabili nel grimaldello per una speculazione finanziaria e in uno dei più estesi saccheggi del Bel Paese. Com'è stato possibile?
Ho cercato qui di ripercorrere gli aspetti salienti di una dinamica storica di grande portata ma per anni emarginata dalle attenzioni pubbliche. E’ un piccolo risarcimento rispetto all’approccio acritico e a senso unico che ha caratterizzato per anni le rinnovabili.
Qualcuno rimarrà sconcertato, altri sorpresi. Qualcuno si riconoscerà nei contesti, altri dissentiranno. E’ il bello della pluralità di idee in un paese democratico che, tuttavia, avrebbe dovuto caratterizzare un dibattito preventivo mai nato. E purtroppo non è un caso.
INTRODUZIONE
Percorrendo le strade del Mezzogiorno ci si imbatte in nuove piantagioni. I “quadri viventi” che ritraevano secoli di storia e paesaggi italici scampati alla lebbra del cemento sono stati improvvisamente oggetto della più grande e rapida trasformazione che l’uomo abbia mai perpetrato al proprio ambiente.
Una, due, dieci, quaranta e poi ancora altre e altre e ancora altre più lontano. Una sequela senza fine e senza ritegno di colossali torri d’acciaio, avulse dalla pietra e dalla terra che li ospitano, si ergono per 100-150 metri di altezza con enormi rotori. Ma anche se si tiene lo sguardo basso “coltivazioni” grigie di pannelli seppelliscono ora come un morbillo, ora come una interminabile distesa, i terreni confiscati in nome dello “sviluppo”, classificato a priori come cosa buona e giusta.
Sono il frutto della nostra richiesta di energia pulita. Ma in nome dell’energia pulita si possono derubricare valutazioni costi-benefici, valori territoriali, pianificazione e perfino la giustizia? “L'energia rinnovabile è come la pace: tutti siamo d'accordo ….” Se ne è accorto Antonello Caporale, giornalista e scrittore nel suo bellissimo Controvento, il tesoro che il Sud non sa di avere.
Non è un libro contro l’eolico eppure ne identifica bene il contesto (come per il fotovoltaico) con una sapiente fotografia narrativa, attraverso riflessioni e storie emblematiche.
Pale e pannelli. A centinaia, per sempre, in quelli che sono stati i granai d’Italia, tra gli ulivi secolari, sulle colline raccontate dalle location cinematografiche, a sovrastare le torri medioevali, nelle aree a maggior valenza per la biodiversità, sulle zone archeologiche, a ridosso delle masserie e perfino delle abitazioni rurali abitate.
Per chi non si accorda c’è la minaccia degli espropri. Se proprio non accetta offerte “a cui non si può rifiutare”. Le chiamano royalties. Si danno ai privati e ai comuni.
Dieci anni: uno scenario a tratti dittatoriale in cui, a torto o a ragione, sono stati scardinati decenni di maturazione delle norme di tutela e delle concezioni più nobili dell’urbanistica e dell’uso razionale del territorio, il valore del paesaggio e il rispetto della Natura per fare spazio a questa trasformazione.
Perchè le rinnovabili sono eco che più eco non si può. A prescindere. Nel 1996-98 si apriva la vertenza eolica tra i Monti Dauni (Fg) e il Beneventano: insediamenti improvvisati, senza alcuna procedura, decine di pale in aree pregiate per la biodiversità e il paesaggio. Era il presagio: un potenziale disastro sarebbe stato generato su vasta scala se il processo non fosse stato rigorosamente governato. Questo pensavano alcuni ambientalisti non appartenenti alla crescente religione dell’”ambientalismo del fare”, ma a quella del fare “bene”. Seguivano le prime istanze di tutela e l’allarme lanciato da una parte dell’associazionismo più sensibile alla tutela del Paesaggio e della Biodiversità e da Comitati territoriali, indignati da metodi di colonizzazione territoriale cosi poco ortodossi. Richieste purtroppo inascoltate.
Sull’altro fronte, invece, qualcuno iniziava a immaginare come la cultura dell’energia pulita e le emergenze del pianeta potevano incanalare gli affari del futuro. Ma non per tutti!
Confezionare gli incentivi più alti del mondo per l’eolico, in nome della lotta ai cambiamenti climatici del pianeta, fu il primo passo. La sommaria deregolamentazione il secondo.
Gli incentivi, insieme ad una totale deregulation normativa, determinarono l’“assalto alla diligenza”. Con interessi economici esasperati le società eoliche avviavano accordi per realizzare impiantare quei manufatti che sarebbero stati i più grandi creati dall’uomo, a fronte di royalties versate ai comuni e ai privati disponibili ad ospitare i piloni eolici sui propri terreni.
In pochi anni la proliferazione di centrali eoliche industriali avrebbe assunto i connotati di “selvaggia” determinando il sacco ambientale di vaste aree del Mezzogiorno d’Italia e in particolare proprio di quelle aree culturalmente più deboli e vulnerabili, a partire dal “cratere” Appulo-Campano, oggi ridotto a ricettacolo di tali impianti con l’assoggettamento di decine di migliaia di ettari. Una delle più grandi trasformazioni territoriali del nostro Paese, oggettivamente promossa da una enorme speculazione economica finanziaria, non ha conosciuto alcun momento di confronto preliminare, di valutazione o, quanto meno, di scelta consapevole nel suo complesso. Un pesante velo di omertà mediatica, inoltre, ha contribuito a oscurare l’attenzione delle coscienze.
Vaste aree hanno mutato il volto tipico di aree rurali e agro-pastorali per assumere quello industriale con centinaia di torri eoliche, piste, sbancamenti e nuove strade, elettrodotti, cantieri, trasporti pesanti, cabine e stazioni elettriche, con colate di cemento per l’ancoraggio al suolo e plinti di cemento a 20 m di profondità.
Oggi sono oltre 5000 torri eoliche industriali ma il consuntivo, abilmente occultato, sta per diventare pesantissimo. E le più recenti distese di pannelli di silicio non stanno a guardare. E poi tutto “eco”, ci guadagna l’ambiente. E sicuramente anche il PIL tedesco e cinese.
ITER AUTORIZZATIVO E VALUTAZIONE AMBIENTALE
L’iter autorizzativo, almeno per gli impianti oltre una certa taglia, prevede sostanzialmente un percorso di conferenze di servizi, in cui sono espressi i pareri di competenza richiesti a seconda dell’area interessata e al netto dei tempi richiesti dal parere ambientale, che rappresenta il più importante atto endoprocedimentale.
L’autorità competente ad esprimere il parere ambientale è in genere la Regione ma, in seguito alla ingestibilità della mole di progetti presentati, si riscontra una insistente tendenza a delegare le province, integrando cosi un ulteriore elemento di parcellizzazione dei procedimenti e di degrado della qualità delle valutazioni. E poi si sa, in nome del decentramento ognuno può fare ciò che gli pare a casa sua, compreso le porcherie.
Il parere ambientale rappresenta la “dote” sostanziale con cui i progetti approdano alle conferenze di servizio previste dalla procedura per il raggiungimento della cosiddetta Autorizzazione Unica ai sensi del D.Lgs 387/03, il provvedimento che ha determinato la deriva nella regolamentazione del settore, assegnando anche il carattere di opere di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti alle opere cosi autorizzate.
Agli affaristi non dev'essere parso vero! La speculazione edilizia raccontata dalla celebre sequenza di Franco Rosi ne Le mani sulla città (1963) presuppone la cosiddetta destinazione urbanistica. Nel caso di queste centrali è già tutto compatibile con la destinazione urbanistica agricola. L’autorizzazione modifica implicitamente il suolo interessato da agricolo a industriale. E sono tutti contenti! Cosa si vuole di più?
In materia di valutazione ambientale gli impianti eolici industriali, cosi come il fotovoltaico, rientrano tra le opere per le quali viene effettuato il cosiddetto screening ambientale rispetto al quale, il progetto può essere approvato con le valutazioni di istruttori e dirigenti (salvo qualche prescrizione) o può invece essere assoggettato alla procedura di VIA vera e propria, che è stato un evento del tutto straordinario rispetto alla mole di progetti trattati.
E’ opportuno ricordare anche la pressoché totale assenza di evidenza pubblica che ne è derivata per tutti progetti presentati fino al 2009 (e quindi ancora in corso di valutazione). La procedura di VIA garantiva l’obbligo della pubblicazione (ad esempio su un quotidiano, per quanto limitativo già possa sembrare) dell’avviso di deposito del progetto, con la possibilità, da parte di chiunque, di presentare delle “osservazioni”. La procedura di screening, invece, permetteva questa propaganda al solo albo pretorio comunale per i canonici 30 giorni garantendo una trattativa “riservata”, se non occulta, tra sindaci e società senza che fosse promossa l’informazione al pubblico su un territorio coerente con le “dimensioni” dei progetti. Esempi sconsolanti sono un po’ tutte le regioni meridionali ma emblematico è il “buco nero” della Campania, che per anni non ha lasciato tracce nemmeno dei pareri ambientali emessi oltre che dei progetti presentati. Senza preavviso, enormi TIR per il trasporto speciale con a bordo grandi piloni eolici si presentavano sui terreni agricoli, sui pascoli, fra i muretti a secco, fino a impegnare piste improvvisate tra lo stupore prima, l’insofferenza e la contestazione poi, di agricoltori e abitanti del luogo che solo in quel momento prendevano atto di ciò che stava succedendo..
Ma la “verifica ambientale” è tutt’altro che garantista, in innumerevoli casi si registra una scandalosa costante: a fronte di relazioni ambientali autoreferenziali, con stima degli impatti paesaggistici e faunistici banalizzati e privi di conforto scientifico, fanno gravemente seguito atteggiamenti valutativi di dirigenti e responsabili regionali che vanno dalla sommaria accondiscendenza allo scarso approfondimento fino al palese, mancato rispetto delle poche prescrizioni normative anche là dove assumono un carattere imperativo.
Per anni, e in gran parte avviene oggi, si è fatto riferimento unicamente agli elaborati progettuali del proponente piuttosto che a uno staff di persone preparate e indipendenti al servizio degli uffici: “l’asino vola”, dice la società. “ok, l’asino vola”, risponde l’Autorità competente. E così centinaia e centinaia di pronunce di compatibilità ambientale sono state emesse, escludendo il progetto dalle procedure di VIA, dalla Campania alla Sicilia, dalla Calabria al Molise, con inevitabili, gravi conseguenze sulla valutazione degli impatti attesi ma soprattutto sull’effetto cumulativo di più progetti. Tuttavia i dati evidenziano che anche i progetti assoggettati a VIA sono stati valutati impropriamente anche per effetto di Commissioni VIA prive di esperti competenti nelle specificità di tali progetti (es. ornitologia), e con rischi di conflitto di interessi tra proponenti e valutatori.
Ma lo abbiamo detto, c’è sempre una voce che martella: fare presto, comunque e dovunque, tutto il resto può essere messo da parte e poco importa se si tratti dei valori più nobili della Nazione. Sennò cosa abbiamo messo a fare gli incentivi più alti del mondo?
E per il fotovoltaico è stato anche peggio. In Puglia avevano pensato bene di escludere totalmente dal parere ambientale tutti gli impianti fino a 15 MW. Vale a dire estensioni ampie 30 ettari ! Salvo reintrodurre lo scorso anno una soglia più bassa dopo i disastri ormai visibili. E poi c’è sempre la possibilità di ricorrere al TAR. Per un progetto che vale milioni di euro e viene contestato vale sempre la pena un ricorso. I contenziosi sono tanti, una gran quantità innescati tra le stesse società energetiche, per la rivendicazione di diritti autorizzativi sulla medesima area! Il termometro di uno stato confusionale che regna da anni nel settore.
Si diceva che l’eolico portasse occupazione, lavoro. Certo questo è stato un settore in cui ne ha portato parecchio. Ricorsi su ricorsi, a centinaia, hanno invaso i tribunali amministrativi, che a loro volta hanno abbattuto il primato di una politica troppo assente per subentrarvi, anche con discutibili sentenze in nome di Kyoto e con buona pace dei valori inalienabili, fino a ieri, della nostra carta costituzionale.
Un quadro desolante, quindi, caratterizzato da innumerevoli esempi di malagestione territoriale e di offesa dello spirito delle procedure di VIA. In forza dell’errato insediamento delle grandi centrali eoliche industriali, aggravato poi dal fotovoltaico, si sono già verificati: l’aborto di parchi in fase di istituzione per sostituirli con i “parchi” eolici (termine abusato e offensivo nei confronti delle vere aree protette), il degrado di molti siti Natura2000, la scomparsa di intere comunità faunistiche di rilievo europeo, lo scempio di paesaggi integri e plurivincolati, il degrado di valori storici, archeologici e culturali prima inalienabili, il decadimento di valori economici legati al turismo ed alla valorizzazione della ruralità. Tutto ciò ha assunto ulteriori, drammatici caratteri con il precipitare delle situazioni regionali dove gli uffici non sono in grado di arginare un fenomeno incontrollato, con migliaia di proposte progettuali disseminate sul territorio.
2010: LE “LINEE GUIDA” E LE IPOTECHE
Ma nel settembre 2010 arriva la svolta. Anzi no.
Con un decreto lo Stato emana le cosiddette Linee Guida per le Autorizzazioni degli impianti da fonte rinnovabile, preannunciate nel lontano 2003 dal famigerato Decreto 387 che aveva deregolamentato il settore. Con 7 anni di ritardo, in cui le varie compagini politiche si sono guardate bene dal realizzare tale provvedimento per la gioia della lobby energetica, arriva la fumata bianca.
Ma a fronte di una situazione già disastrosa, il decreto individua punti chiave garantisti per le procedure amministrative, con non pochi vantaggi per le società, ma demanda alle regioni, non un “obbligo” ma la “possibilità” (e nemmeno tanta) di individuare una vincolistica territoriale di salvaguardia.
Le Regioni, cui spetta la competenza urbanistica ma ormai abbondantemente contaminate dalla lobby, arricchitasi e irrobustita in quasi dieci anni, si sono quindi guardate bene dall’intervenire drasticamente. E poi lo abbiamo detto: se provi a fare qualcosa del genere il giorno dopo sei su tutti i giornali (e che giornali) e gli “ambientalisti”, non tutti, ti massacrano. Ma qualche timido vincolo c’è stato, con ritardo, altri sono stati aggiunti nell’ultimo anno.
Un miracolo!? Una presa di coscienza? No, un'inutile farsa. Infatti la lobby del KWh “pulito” non è stata a guardare: nel frattempo aveva già presentato tanti e tali progetti su cosi vasta scala da opzionare ogni angolo di territorio, ogni zolla di terreno per rivendicare procedimenti intrapresi e non assoggettabili, o quasi, a nuove regole.
Lo chiamano tempus regit actum, il tempo regge l’atto. Il principio giurisprudenziale con cui si vuol rivendicare la non assoggettabilità di un procedimento a nuove regole.
Attenzionando centinaia di progetti emerge come la qualità di questi sul piano paesaggistico, ambientale e della biodiversità è, nella grande maggioranza dei casi, a dir poco superficiale. Del resto, non essendovi norme selettive, anche i progetti risentono di questa carenza. Le società “illuminate” si sarebbero trovate in difficoltà, e spesso fuori mercato ove, avessero “perso” tempo prezioso nel ricercare criteri di qualità, etica, concertazione e trasparenza.
Paradossalmente, la scarsità di regole premia le società peggiori e danneggia eventuali società qualificate che, gioco forza, devono abbassare i loro standard qualitativi. In sostanza un danno per l’immagine delle stesse fonti rinnovabili.
Per fare uno dei tantissimi esempi, oggetto peraltro di un’indagine della magistratura, a Campomaggiore in Basilicata, la multinazionale STE-Energy di Padova ha realizzato un impianto esattamente su un sito di svernamento di 100 Nibbi reali, con pesanti conseguenze anche dal punto di vista paesaggistico poiché a ridosso delle Piccole dolomiti lucane ma anche con sbancamenti e piste sopra tratturi storici. Fatto ulteriormente grave è che nulla di ciò compare nelle relazioni ambientali della Società.
Stesso copione in Campania, a Monteverde, in uno scenario di incomparabile bellezza a breve distanza dalle location lucane di “Io non ho paura” opera cinematografica di interesse nazionale di Gabriele Salvatores e perfino “sopra” una delle dieci coppie di Cicogna nera in Italia, con contorno di Nibbi reali e Nibbi bruni. Un gigantesco quanto scandaloso impianto da 19 torri (a mortificare una Irpinia già martoriata) autorizzato alla GENCO, classica srl da 10.000 euro, scatola finanziaria e avamposto di conquista inglobato dalla Essebiesse Power. E cosi via all’infinito. Progetti, giochi e scatole fino alla compravendita di autorizzazioni o di procedimenti in corso che si perdono non disdegnando sedi a Brusselles e in giro per il mondo. Ovviamente, anche in questi casi, le proteste delle associazioni hanno stentato a trovare rilievo nazionale.
E siamo a 170.000! Sono i MW di targa di tutte le istanze progettuali (solo oltre una certa soglia di potenza) pervenute al gestore nazionale della rete elettrica, quasi tutte eolico e fotovoltaico. Per avere un’idea della mole oceanica di cui stiamo parlando bisogna pensare che l’intera potenza messa “in moto” in Italia quando vi è il massimo assorbimento è di 56.000 MW.
Ironia della sorte, oggi si continuano ad autorizzare progetti di centrali eoliche e fotovoltaiche perfino in quelle poche aree successivamente dichiarate interdette perché ormai avevano maturato procedimenti e diritti prima di tali provvedimenti di tutela. Da qualche anno, entrare in un ufficio preposto a rilasciare pareri ambientali per progetti eolici o fotovoltaici (ma è la volta anche della valanga dei progetti a biomasse) rende bene l’idea di un incubo. Faldoni su faldoni ovunque, sulle sedie, a terra, sulle scrivanie. Stanze stracolme, corridoi e armadi pieni. Migliaia di progetti. Tutti pronti per essere trattati dagli uffici. Che non ce la faranno mai.
Un altro esempio: qualcuno ha salutato positivamente, alla luce delle citate Linee Guida nazionali, l’obbligo di coinvolgimento della Soprintendenza anche per le aree esterne a quelle vincolate, in seno alle conferenze di servizio per l’Autorizzazione degli impianti. In realtà tale opportunità è in gran parte compromessa dalla mastodontica quantità di istanze in alcun modo scremate alla fonte da vincoli territoriali certi. Tali uffici, come appunto quelli preposti alle valutazioni ambientali, sono letteralmente al collasso e in diverse regioni vi sono 3-4 convocazioni di conferenze di servizio al giorno intraprese per nuovi procedimenti. E allora pareri sommari o, nel migliore dei casi, un “utile” ricorso al TAR per tempi non rispettati. Oppure si può sempre ricorrere a qualche salvifica scrematura : una bella norma di deregolamentazione e via libera, ad esempio, a tutti i progetti di una certa taglia.
Del resto l’edilizia lo aveva insegnato: vuoi agevolare il settore? Indebolisci gli uffici preposti al controllo. Caos nel caos. Ma guai a parlarne.
A dire il vero però qualcuno riusciva a bucare la cappa disinformativa. Ci provava Exit su La7, Report su Rai3, e poi Maurizio Altomare con le “Mani sul vento” su RaiNews 24 e altri nobili esempi di vero giornalismo. Qua e là comparivano isolati articoli critici su alcune testate nazionali … “Altre” associazioni, comitati e alcuni parlamentari, ponevano la questione alle istituzioni politiche rivolgendo appelli e istanze, articolando dossier e invocando audizioni.
E ovviamente la somma “investimenti facili” + “regole scarse” non poteva che dare come risultato non solo un inquinamento morale e la depressione dei precari equilibri democratici delle piccole comunità ma anche una attrattiva irresistibile per la criminalità. Salvo poi correre ai ripari con il soccorso “ambientalista” e le campagne mediatiche riparatorie della lobby. Come quelle dell’ANEV (Associazione Nazionale Energia dal Vento), associazione di categoria che raccoglie le società eoliche e ne rappresenta gli interessi, ma anche, incredibile ma vero, associazione Ambientalista riconosciuta dallo Stato, al pari di tante altre associazioni che reggono la propria ossatura sul volontariato e minando cosi gli equilibri sull’argomento.
GLI INCENTIVI DELL'EOLICO
In passato l’eolico ha beneficiato di un regime di incentivazione basato su contributi in conto capitale – es. POR -, adottati in alcune regioni, e su agevolazioni o contributi in conto capitale - legge 488 - a livello nazionale, con riconoscimenti al beneficio economico prima ancora che il progetto avesse un qualche parere istruttorio, con immaginabili esasperazioni della pressione della società del settore!
Con la sola legge 488 e per le sole graduatorie 2003 e 2004 le “agevolazioni” riconosciute concedibili sono state pari a circa 211 milioni di euro. Oltre 420 milioni in quella del 2007.
L’incentivazione maggiore deriva tuttavia dai cosiddetti Certificati Verdi che unitamente al prezzo di vendita dell’energia portano a circa 180-200 euro il valore odierno di un MWh prodotto. Certificati negoziati sul mercato dell’energia, nell’ambito del quale quindi il costo può lievitare, ma in ogni caso garantito dallo Stato che, a fine anno, assicurerà il ritiro dei certificati invenduti a prezzo di mercato grazie alle nostre bollette. Un concetto abbastanza strano di “libero mercato” per società che rivendicano libertà di impresa (se di impresa si può parlare) e soprattutto che non tollerano poi che enti pubblici possano sostituirsi nella produzione energetica.
Sulla base di tale parametro si comprende come per 1 MW di potenza installata, per la produttività di zone accettabilmente ventose, deriverebbe l’energia pari a circa 360-380 mila euro. All’anno!
Un impianto da 20 MW “produrrebbe” quindi oltre 7 milioni di euro annui.La durata dei certificati verdi, con la finanziaria 2008, è passata a 15 anni, senza contare ulteriori 15 anni con una “ristrutturazione” dell’impianto. Si intuisce l’impatto che sia stato generato nell’ambito di procedimenti autorizzativi e di valutazione, estremamente carenti sul piano delle regole e delle procedure, e che purtroppo ricadono nella sfera delle discrezionalità di tecnici comunali e dirigenti regionali.
Le garanzie per l’eolico sono state tali che si sono potuti realizzare impianti in aree ben conservate sul piano rurale e quindi prive di rete elettrica sufficiente per poter ingressare l’energia prodotta durante giornate particolarmente ventose. Ma per le società questo non è un problema: in tali occasioni sono lautamente indennizzate come se l’energia dell’impianto fosse ugualmente dispacciata in rete. Inoltre le società eoliche hanno potuto realizzare impianti anche chiedendo anticipi sul pagamento dei certificati verdi a fronte delle stime produttive. Una stridente forma di prestito finanziario garantita dallo Stato, soldi cash in un periodo di ristrettezze in cui l’accesso al credito è invece un miraggio da parte delle banche, deputate per antonomasia a questa funzione, nei confronti di artigiani e piccola impresa. Anche per questo i progetti di tali impianti tendono “utilmente” a sovrastimare la risorsa eolica nei loro elaborati.
Emblematico è stato il tentativo di ridimensionare il Certificato Verde approdato poi nel decreto Romani del 2011. Dopo la diatriba tra gli schieramenti politici si arriva a definire un piccolo ritocco. Ritocco al valore di riferimento del Certificato Verde? Nemmeno per sogno. Solo al valore di ritiro di quello invenduto! E di ben il 30%, propone la politica. Non oltre il 15% ribatte la lobby. Alla fine sarà del 22%. Del resto, non si mette a rischio un governo per simili quisquilie.
Dal 2013 si prevede di incentivare questa tecnologia attraverso aste al ribasso ma l’accessibilità al sistema dei certificati verdi sarà garantita fino a tutto il 2015, ed ecco la corsa ad accaparrare diritti acquisiti (mettere in esercizio le centrali il prima possibile) per rivendicare posizioni di rendita.
L’IMPATTO AMBIENTALE DELL’EOLICO
Impropriamente, l’impatto dell’eolico viene spesso circoscritto alla mera occupazione fisica delle opere. In realtà esso comporta un assoggettamento territoriale su area vasta.
Sul piano paesaggistico la modifica territoriale ad opera di tali manufatti industriali, assolutamente fuori scala (i più grandi mai realizzati dall’uomo, 100-150 m di altezza con rotori ampi 70-90 m) e collocati in posizioni ovviamente dominanti, è di tale entità da costituire un profondo detrattore per la percezione della ruralità e della tipicità dei luoghi, condizionando aspettative turistiche nelle sue molteplici forme (agriturismo, naturalistica, archeologica, ecc). Si pensi a emergenze archeologiche, o addirittura a siti UNESCO come i Sassi di Matera, che rischiano l’assedio di piantagioni di pale eoliche, perdendo ogni riferimento contestuale con il territorio circostante per il visitatore.
L’integrità ambientale e paesaggistica percepita, invece, risulta una delle principali prerogative turistiche ricercate dal visitatore.
I consessi scientifici concordano nel ritenere insufficiente una tutela delle emergenze storiche e archeologiche dagli impatti delle grandi opere senza una fascia di rispetto che tuteli una visione di contesto e di insieme dell’area interessata, ovviamente commisurata all’entità delle opere che si realizzano.
Sul piano sociale, l’assenza di perequazione ha indotto il decadimento del valore immobiliare per le proprietà contigue agli impianti a vantaggio di pochi privati. Mentre l’impatto finanziario causa anche pesanti alterazioni nell’equilibrio democratico delle piccole comunità e l’innesco di deprecabili fenomeni di ingiustizia sociale.
Sul piano urbanistico si registra la compromissione delle aree più pregevoli. Anche la implementazione di altre forme di pianificazione (PIT, PTCP, istituti faunistico-venatori, Piani di assetto urbanistico, rete di tratturi, ecc) rischia di essere vanificata per l’incongruenza con l’avvento di alterazioni territoriali non previste e di cosi ampia portata.
Sul piano idrogeologico le modifiche territoriali ad opera di questi impianti assumono rilevanza notevole: questi grandi manufatti spesso sono ubicati su soprassuoli (a volte carsici con necessità di scassi e spietramenti) ad orografia complessa, da cui nascono linee di impluvio e formazioni geomorfologiche che convogliano le acque meteoriche nel circolo sotterraneo con conseguenze del tutto imprevedibili.
La scelta di realizzare centrali eoliche industriali, ma più recentemente anche fotovoltaiche, in un determinato territorio esclude e condiziona molte altre opzioni d’uso di quel territorio, con ingenti danni specie nei confronti di attività che si volessero sviluppare o potenziare, come l’agriturismo, il turismo escursionistico o culturale.
Quasi tutte le regioni italiane, ma in particolare quelle del Mezzogiorno, sono colpite dalla invasione incontrollata di “piantagioni” di piloni eolici: dall’Abruzzo e Molise alla Sicilia centinaia e centinaia di torri eoliche aggrediscono e assediano Parchi Nazionali e Regionali, Riserve Naturali, SIC, ZPS, IBA, Avvoltoi, Aquila del Bonelli, Grillaio, Cicogna nera, Lanario, Biancone, Aquila reale…. ma anche Chirotteri, Lupi ed Orsi. Pur volendo ingiustamente prescindere da grandiosi valori paesaggistici e storico-archeologici che caratterizzano questa parte del Paese.
E sulla biodiversità, qual è l’impatto?
Sul piano naturalistico l’insediamento di tali manufatti industriali in movimento, corredati di infrastrutture (strade, cabine di trasformazione, elettrodotti, ecc), incide sugli ecosistemi naturali (pascoli, macchia) e seminaturali (ecosistemi agrari estensivi, aree “mosaico”, ecc), determinando impatti diretti e indiretti sull’avifauna, sui Chirotteri, sugli invertebrati, sugli habitat ed in generale su tutto l’ecosistema coinvolto. E’ ampiamente dimostrato che gli impianti eolici producono seri effetti negativi sulle biocenosi e sugli uccelli e chirotteri in particolare. Ciò deriva dalle risultanze di molti studi e ricerche effettuati in diversi paesi del mondo.
Tale problematica è evidenziata in maniera esplicita anche nel documento “ - Draft Recommendation on minimising adverse effects of wind power generation on birds. ” (Consiglio d’Europa, 2003), che riporta:
Concerned about the potential negative impacts of wind turbines and associated infrastructure on wild birds, as well as on their food sources and habitats, including:
(a) loss of, or damage to, habitat (including permanent or temporary feeding, resting, and breeding habitats);
(b) disturbance leading to displacement or exclusion, including barriers to movement;
(c) collision mortality of birds in flight;
Dall’analisi degli studi in merito, emerge che gli effetti negativi sugli Uccelli e sui Chirotteri consistono essenzialmente in due tipologie d’impatto:
- diretto, dovuto alla collisione degli animali con parti dell’impianto in particolare rotore, che colpisce principalmente, Chirotteri, rapaci e migratori (Orloff e Flannery, 1992; Anderson et al., 1999; Johnson et al., 2000; Thelander e Rugge, 2001);
- indiretto, dovuti all’aumentato disturbo antropico con conseguente allontanamento e/o scomparsa degli individui, modificazione di habitat (aree di riproduzione e di alimentazione), frammentazione degli habitat e popolazioni, ecc.. (Meek et al., 1993; Winkelman, 1995; Leddy et al., 1999; Johnson et al., 2000; Magrini, 2003).
Entrambi gli effetti riguardano un ampio spettro di specie, dai piccoli passeriformi ai grandi veleggiatori, ai Chirotteri, agli invertebrati, etc.. In particolare risultano particolarmente minacciati gli uccelli rapaci e i migratori in genere.
Anche mozioni e risoluzioni nei massimi consessi scientifici testimoniano le preoccupazioni per gli effetti ormai conclamati di queste tecnologie a carico della biodiversità.
Qualcuno dirà che ci sono ben altri guasti territoriali di cui occuparsi e che una colata di cemento è più dannosa di una distesa fotovoltaica o di una centrale eolica.
Ma prettamente dal punto di vista della valutazione ambientale l’incisività dell‘eolico o del fotovoltaico non “sostituisce” altre problematiche, al punto tale da consentirne raffronti o paragoni ma anzi si aggiunge ad esse, aggravando il contesto complessivo, premendo proprio su habitat particolari e territori tra quelli maggiormente conservati e quindi su popolazioni faunistiche di estremo interesse perché già minacciate, senza contare altri valori. Termini di paragone, quindi, sono del tutto inapplicabili ai fini scientifici per una corretta valutazione.
QUEL BRUTTO AFFARE DEGLI IMPIANTI FINO A 1 MW
Un ragionamento a parte merita una deleteria deregolamentazione espressamente finalizzata alla realizzazione di impianti fino a 1 MW, provocatoriamente definiti “piccoli” impianti.
Come se non bastasse, infatti, le macchine eoliche “singole” fino a 1 MW, possono essere oggetto di ulteriore deregolamentazione e assoggettate alla sola DIA (Dichiarazione di Inizio Attività) dalle Regioni, come inizialmente programmato all’art. 17 della legge Comunitaria 2009, escludendosi quindi la cosiddetta Autorizzazione Unica ai sensi del D.Lgs 387/03.
Un emendamento “al bacio” promosso da parlamentari “doc” ma questa è un’altra storia…. come tante in questo settore.
La stessa deregolamentazione era prevista anche in una infelice proposta di legge popolare sull’energia a cura di alcune associazioni ambientaliste. Proposta ovviamente in gran parte condivisibile, almeno nel principio, ma che non andava tanto per il sottile quando si tratta di garanzie territoriali, senza quindi proiettare immaginabili conseguenze. In Italia, poi!
1MW di eolico significa 100 m di altezza, 1MW di Fotovoltaico occupa 2 Ha di terreno agricolo….
E allora ecco servito il regalo ai privati con le deregolamentazioni introdotte con il D.Lgs 28 del 3 marzo 2011, il Decreto Romani, per gli impianti rinnovabili da 1MW. E’ concesso alle Regioni di escludere questi impianti dal tradizionale regime autorizzativo e di assoggettarli alla sola P.A.S. (Procedura Abilitativa Semplificata), una sorta di Dichiarazione di Inizio Attività, per di più semplificata. Già ma…. questi impianti sono spuntati come funghi ben prima. In Puglia. Qui, infatti, si inaugurava questa tendenza già nel 2008 con una norma fuorilegge, che elevava, appunto fino a 1 MW, i limiti con cui era possibile realizzare torri eoliche con una semplice dichiarazione di inizio attività. E pensare che in Puglia si stava già ipotecando tutto con centinaia di piantagioni eoliche “tradizionali”.
Nuovo caos. A questa terra, già battuta in lungo e in largo da faccendieri e da proposte di centinaia e centinaia di progetti eolici e fotovoltaici, mancava un non so che…. Si chiama colpo di grazia. Certo, in una regione così politically correct appariva quanto meno stonato applicare la ricetta del “meno regole per tutti” e più “liberalizzazione”….
Via la “V.I.A.” e via la richiesta di Autorizzazione Unica. Fai una “Dichiarazione di Inizio Attività” al tuo Comune e tiri su un pilone da 100 m con rotore, linea elettrica e fondamenta in cemento armato profonde 10-20 m. Alla faccia dei tuoi vicini e di qualunque attenzione ambientale o paesaggistica.
Del resto si tratta di “piccoli interventi”, anche se vuoi fare un lavoro sulla veranda della tua abitazione fai altrettanto: Dichiarazione di Inizio Attività e tempo 30 gg , se il comune non ha nulla da contestare puoi partire con i lavori.
Per il fotovoltaico, la Puglia, come già accennato, aveva già rimosso completamente la verifica ambientale per impianti fotovoltaici addirittura fino a 15 MW (ben 30 ettari!). Un’assurdità, degna delle peggiori condotte di governo territoriale. Rimaneva l’Autorizzazione Unica ma ben poca cosa senza il passaggio sostanziale, quello del parere ambientale. E così, senza valutazioni, ecco un fiume di progetti fotovoltaici al suolo targati 14,999 MW. Ogni comune è stato destinatario di decine di richieste di D.I.A. eoliche. Una aggressione indicibile e per di più proprio dove le istituzioni avevano mostrato più compiacenza e mancanza di midollo, i Comuni.
94 richieste di DIA nel solo comune di Candela, che già con gli impianti tradizionali ben meriterebbe un premio “Attila”, se non fosse per l’imbarazzo e l’indecisione che si avrebbe a fronte di tanti altri concorrenti del comprensorio anch’essi molto meritevoli. Si arrabbiarono perfino le società eoliche che avevano procedimenti di grandi impianti sulle stesse aree, contese ora con queste iniziative incontrollabili e molto più rapide. Ma al di là di tutto, non era una deregolamentazione per impianti… “singoli”? Tanto ci teneva a precisare, se mai ce ne fosse stato bisogno, una Circolare della Regione Puglia a tutti i Comuni. Bè, è chiaro che se uno tira su due pale da 1MW il totale è 2! Ed è altrettanto chiaro che li si sta prendendo per i fondelli il prossimo. E paradossalmente si possono aggravare anche gli effetti ambientali: due fondamenta, due piloni, due rotori... Insomma procedure ingovernate nel segno dell’ingiustizia.
La Corte Costituzionale ci ha messo più di un anno e mezzo per affermare che quella norma era platealmente fuorilegge, affermando che una Regione non può sforare limiti e soglie ben più bassi (60 kW) individuati da norme statali sovraordinate per le procedure semplificate. Già… non può… ma lo ha fatto! Per la gioia dei soliti noti.
Nel Paese dei condoni, diritti ormai acquisiti. A loro i soldi a noi altro territorio adulterato. Prima una pala “singola”. Poi un’altra vicino. E nessuno si accorge di nulla. E allora un’altra ancora. E visto che ci siamo vuoi che non ci si piazzi un bel impianto fotovoltaico da 1 MW? Anzi ne facciamo un paio vicino alle torri. Ma che siano impianti “singoli” mi raccomando. Tutto alla faccia della collettività. Centrali elettriche da 2-3-6 MW senza alcun procedimento degno di questo nome.
E quanti sono i soli impianti di questo tipo? diversi in vista del castello di Lucera, 3-4 a Bovino, 5-6 a Foggia, 7 a Torremeggiore e cosi via, solo per rimanere in quella Daunia capitale della devastazione paesaggistica. Nessuno lo sa. Nemmeno la Regione.
Una triste esperienza che avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Invece qualcuno ha ben capito che quella era una occasione ulteriore per fare cassa, per speculare estendendola anche ad altre Regioni che volessero diventare un po’ più “ambientalista” delle altre.
In Basilicata la nomenclatura regionale era alla finestra. La Corte Costituzionale stava già abbattendo la norma pugliese ma, nonostante tutto, pensarono bene di fare la stessa cosa. Non si può, ma se lo fai vuol dire che si può! Semmai dopo, molto dopo, lo Stato ti dirà che non si può. Nel frattempo…. Cosi anche la Basilicata ha iniziato a darsi un gran da fare con queste norme ad personam per tutti coloro che volessero eludere altre norme, quelle ambientali. DIA, la parola magica, ed inizia il colabrodo: una pala li, un fotovoltaico là, uno un po’ più in là, ancora un altro e via così. Anche qui la Corte Costituzionale impugna la norma lucana. Ma la “parlamentare provvidenza” interviene in aiuto. Sembra fatto apposta per la Basilicata, terra bellissima ma appetitosa perché tanto i lucani sono “pochi”, e pochi quelli che votano. Arrivano i decreti nazionali a concedere alle Regioni la facoltà di elevare le soglie di potenza deregolamentabile legittimando ecofurbi & C.
Come se non bastasse si assiste a nuovi atteggiamenti elusivi perfino nei confronti di recenti misure di contenimento di carattere governativo sanciti con i predetti decreti.
L’interdizione dell’accesso agli incentivi per il fotovoltaico oltre 1 MW sui terreni “agricoli” previsto con il DLgs 28.03.2011 (Decreto Romani sulle Rinnovabili), comunque in vigore con un transitorio di un anno (!), viene incredibilmente elusa perseguendo il cambio di destinazione urbanistica da “agricolo” ad “industriale” delle aree interessate, anche per centinaia di ettari (es. comune di Foggia). Nascono inoltre sempre più progetti di cosiddette “serre fotovoltaiche” da decine di ettari l’una, le cui coperture in fotovoltaico lasciano chiaramente intendere la scarsa vocazione colturale e la matrice del tutto speculativa.
continua
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