Una cara amica passa un inverno “pesante” dietro al genitore che, dopo lunga e dolorosa malattia, inevitabilmente muore. La mia amica, donna forte e di piglio deciso, autonoma, indipendente eccetera, eccetera, eccetera, cerca di affrontare con coraggio la perdita e, come spesso accade, colma il vuoto dell’anima con un’agenda di fitta di impegni lavoravi e familiari. Ma non basta. Trascorrono i mesi ma la situazione non sembra migliorare. Prima dell’estate, un bel giorno, mi telefona con voce squillante. Amante, fidanzato nuovo? La curiosità è femmina! La raggiungo in ufficio per un caffè e, incredibile a dirsi, mi presenta il motivo di tanta sopraggiunta serenità: Stella, 20 centimetri di barboncina toy, più simile a un topo che a un cane. Insomma un coso da borsetta alla Paris Hilton. La cosa è simpatica. L’amica ride.
Boris Levinson, psichiatra infantile, fu il primo a sottolineare gli effetti terapeutici della compagnia degli animali. La storia narra che un giorno, un piccolo paziente, entrato nello studio del medico, si diresse verso il cane presente in studio, dimostrando una spontaneità e un’interazione più forte con l’animale che con il dottore. E fin qui …. ! Levinson percepì che il cane potesse essere usato come mediatore nella comunicazione tra medico paziente e che il paziente potesse proiettare sull’animale le proprie sensazioni altrimenti inesprimibile. Segue, ovviamente, numerosa letteratura sul tema.
Al di là o meno delle teorie e pratiche socio assistenziali che prevedono l’utilizzo di animali sono felice per la mia amica. Diciamo che io preferisco i cani di grossa taglia e che, soprattutto, non amo Paris Hilton. Ma hanno senso simili ragionamenti? Quelle due se la intendono!