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La moria silenziosa degli ecosistemi acquatici dei Colli Albani

 Nel territorio dei Colli Albani, a partire dal 2002, vige la dichiarazione dello stato di emergenza in quanto interessato da crisi idrica. 
 La questione attiene a come assicurare un adeguato approvvigionamento idrico in un’area caratterizzata da consumi idropotabili che si attestano tra i più elevati in Italia e, sicuramente, in Europa  (circa 400 litri/giorno pro capite – fonte Piano Regionale Generale degli Acquedotti della Regione Lazio), quando le periodiche  carenze di precipitazione  meteorica criticizzano un sistema che non riesce a soddisfare i fabbisogni di una platea molto idroesigente.
 Tale dinamica è stata complicata dalla recente decisione assunta dall’OMS di non mantenere la deroga della soglia di ammissibilità delle concentrazioni di arsenico nelle acque potabili fissata a 50 microgrammi/litro (successivamente attestata a 20 microgrammi/litro) in acquiferi dove detto elemento, congiuntamente al vanadio, al fluoro e ad alcuni altri, costituisce una componente naturale della chimica di fondo delle acque sotterranee circolanti nell’apparato vulcanico.
 
Parallelamente, da almeno dieci anni, si tengono convegni di denuncia dell’intenso sfruttamento della acque sotterranee dei Colli Albani e, più in generale, degli acquiferi vulcanici del Lazio.
 
Regione,  Provincia,  Comuni, Autorità di Bacino, partiti politici e cittadini hanno da tempo richiamato l’attenzione su un  insieme di fenomeni, tra i quali il più evidente è l’abbassamento del livello dei laghi di Albano e di Nemi.
 
Negli ultimi decenni e, segnatamente, a partire dagli anni ‘70, la pressione insediativa nei Castelli Romani - area residenziale di pregio alle porte di Roma - è di gran lunga aumentata; in molti comuni, come Albano, Genzano, Velletri e altri,  la popolazione residente (e, con essa, le attività agricole ed industriali) è circa duplicata. Ne risulta una domanda d’acqua via via crescente, cui si è cercato di far fronte accedendo alle risorse idriche sotterranee.
 
La disponibilità e la diffusione di tecnologie di perforazione profonda a basso costo hanno permesso ad una platea sempre più estesa di imprese, comunità, e singoli privati, di accedere ad una risorsa preziosa e nascosta, che circola nelle viscere  dell’antico vulcano, testimone relitto dell’evoluzione geologica del margine tirrenico laziale degli ultimi 600.000 anni.
 
Prima di questo aumento vertiginoso dei prelievi, le acque di pioggia - che si infiltrano nei terreni lungo le pendici del vulcano - alimentavano una circolazione sotterranea indisturbata, che riemergeva in sorgenti isolate e  lungo i corsi d’acqua che radialmente si diramano dal centro dell’edificio vulcanico, nonché nei laghi con cui la falda sotterranea è in connessione idraulica.
 
Successivamente, con l’escavazione progressiva di pozzi, a profondità anche di 300-400 metri, si sono alterati i bilanci degli acquiferi,  le direttrici di deflusso ed i recapiti finali delle acque del sottosuolo.
 
Allo stato attuale, risultano dichiarati circa 35.000 pozzi; si stima che il sommerso ammonti a cifre dello stesso ordine di grandezza nel solo comprensorio degli Albani.
 
La stima dei volumi estratti (per alimentare i vari usi civili, agricoli, e industriali) è di 345 milioni di metri cubi/anno. Di questi, 106 milioni di metri cubi/anno vengono immessi nella rete acquedottistica. La gran parte dell’acqua emunta non torna nel sottosuolo ma viene dissipata per i diversi usi, con la drastica interruzione del suo percorso naturale.
 
Gli studi portati avanti, ormai da diversi anni, dall’Università degli Studi Roma Tre - Dipartimento di Scienze Geologiche - e le rilevazioni del Servizio Idrografico regionale rendono conto degli effetti generatisi nell’area. Il livello dei laghi Albano e Nemi si va progressivamente abbassando (con punte fino a 4 metri per il lago Albano).
 
Meno evidente è il progressivo depauperamento della portata estiva dei corsi d’acqua (che si è ridotta mediamente del 40%, con punte del 60%), cui si sommano i carichi inquinanti sversati; un duro colpo alla vita acquatica.
 
A ciò si aggiunge la scomparsa silenziosa di sorgenti e fontanili, una lenta e progressiva  modifica degli elementi del paesaggio.
 
Meno documentato è l’impatto sugli ecosistemi, anche se è certa la drastica riduzione o scomparsa di anfibi, rettili, tartarughe e di animali acquatici quali il granchio d’acqua dolce.
 
Le acque sotterranee sono acque pubbliche e vengono date in concessione in base al TU delle Acque (R.D. n. 1775 del 1933). Negli Albani si stima che i quantitativi concessi, o meglio quanto è concesso sotto il puro profilo amministrativo, superi di circa 2 o 3 volte la risorsa rinnovabile  totale.
 
Tale situazione non si riscontra  solo negli acquiferi vulcanici; in estese aree della penisola la quantità di risorsa idrica (sotterranea e superficiale) concessa supera di gran lunga la risorsa disponibile, tanto che se il diritto acquisito a prelevare ed emungere venisse esercitato a pieno titolo, gran parte dei corsi d’acqua italiani sarebbe a secco.
 
Come è possibile che le amministrazioni concedenti non governino la situazione?
 
Osserviamo meglio la filiera.
 
I potenziali utenti  (tra cui dovrebbero rientrare anche i grandi gestori del Servizio Idrico Integrato) richiedono la concessione all’Ente concedente, che è la Regione o la Provincia in ragione dell’assetto istituzionale di cui  ogni Regione ha inteso dotarsi nel settore.
 
Detti Enti avviano l’istruttoria anche sulla base dei pareri degli altri soggetti pubblici chiamati ad assicurare diverse forme di tutela ed il rispetto di vincoli. Tra questi ultimi il ruolo principale è svolto dalle Autorità di bacino, che esprimono il loro parere vincolante sulla base della conoscenza del bilancio idrico o delle previsioni dei Piani Regionali di Tutela delle Acque e, più recentemente, considerando gli obiettivi per i corpi idrici superficiali e sotterranei  definiti nel Piano di Gestione delle Acque nel distretto idrografico di competenza (redatto ai sensi della Direttiva 2000/60/CE) e comunicati alla Commissione Europea.
 
Nel caso dei Colli Albani siamo in presenza di conoscenze ormai più che consolidate e di atti di pianificazione (tutela) già vigenti.
 
I passi successivi avrebbero dovuto essere: censire tutte le utenze e rimodulare quanto già concesso al fine di renderlo aderente alle reali disponibilità, ovvero ad un tasso di sfruttamento delle acque sotterranee che non generi impatti e permetta di conseguire gli obiettivi comunitari. Tutto ciò introducendo a sostegno  misure atte a favorire il risparmio idrico ed il riuso, una adeguata campagna informativa, la partecipazione pubblica delle categorie produttive alle scelte di pianificazione e, soltanto in ultimo, ove strettamente necessari, interventi strutturali come quelli delineati nella dichiarazione di “emergenza idrica”, che non avrebbe alcuna ragion di essere se si seguisse una corretta prassi di gestione della risorsa idrica.
 
Tutto  ciò dovrebbe essere corroborato da un efficiente sistema di controllo delle quantità emunte dai singoli utenti, un sistema informativo trasparente ed un dimensionamento dei canoni (attualmente irrisori) per il recupero dei costi di un servizio efficiente e rispettoso dell’ambiente.
 
Ebbene, si tratta di quanto richiesto  sia  dalla normativa nazionale che da quella europea, con l’aggiunta che la Direttiva 2000/60/CE richiede formalmente che gli Stati membri attuino il recupero dei costi dei servizi idrici, ivi compresi quelli sulla risorsa idrica.
 
Tutto ciò considerato, sembra che la Pubblica Amministrazione italiana, o meglio la politica che la governa, sia abbastanza attiva nel promuovere studi, meno nel pianificare, e completamente assente nella gestione delle conseguenze degli atti di pianificazione, solerte infine nelle dichiarazioni dello stato di  emergenza come a sancire il fallimento delle sua stessa ragione di essere.
 
Competenze malamente ripartite, uffici sottodimensionati, assenza di catasti aggiornati a supporto della quotidiana gestione delle richieste dell’utenza, appaiono i tratti salienti di una  gestione sregolata e sgretolata dell’acqua, in un paese dove la certezza di poter disporre delle fonti di approvvigionamento diminuisce nel tempo.
 
Il piccolo proprietario di un pozzo, magari a supporto di un’attività produttiva,  non ha certezza che la risorsa concessagli  non  venga sottratta dal vicino, così come  il grande gestore di servizi idrici non ha certezza che le grandi fonti non siano erose da una platea incontrollata di concorrenti.
 
Nel dibattito “acqua pubblica - acqua privata”, la questione di chi, a chi, e in che modo viene allocata la risorsa idrica primaria, quella che è sicuramente e indiscutibilmente pubblica, continua ad essere l’elemento sottaciuto e inosservato.

 

 

Data: 21/06/2011
Autore: AL9000
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