Il rapporto tra l’uomo e le altre specie è sempre stato evidentemente problematico per una serie di ragioni, non ultimo il desiderio della nostra specie di avere l’esclusiva sulla gestione del territorio e di sottomettere gli altri esseri viventi alla propria potestà.
Questa tendenza, che non ammette convivenza e pari dignità alle altre specie, era già presente nel Paleolitico, se è vero che proprio all’uomo si deve la distruzione della megafauna del Pleistocene. E non si tratta solo della pratica venatoria a scopo alimentare, ciò che usualmente vediamo descritto come il glorioso cammino dell’uomo, ma di una più profonda volontà di annientare le altre specie: togliere loro l’ambiente di vita, allontanarle o ucciderle a titolo gratuito.
Ancora oggi, che praticamente abbiamo portato a estinzione metà delle specie presenti sul pianeta e che ne abbiamo desertificato la presenza nelle campagne, nei boschi, nei fiumi e nelle città, non si è placata questa fame di distruzione, alimentata e giustificata in mille modi differenti. Solo pochi mesi fa camminavo in una campagna desolata infestata non da ratti o da cavallette, ma da torme di cacciatori ottusi pronti a sparare alla più pallida traccia di movimento e pensavo alla violenza che deve subire quotidianamente chiunque abbia a cuore la presenza degli animali.
Vivere in campagna significa stare all’inferno, subire ogni sorta di angheria da parte dei cacciatori. Ho insegnato ai miei figli a rispettare gli altri animali e tuttavia non ho potuto impedire che un cacciatore sparasse a una lepre presso il mio cancello di casa, davanti al mio bambino di cinque anni che piangeva disperatamente.
Per più di un mese mio figlio ha fatto fatica ad addormentarsi, o si svegliava in preda a incubi.
In dieci anni ho subito una lunga sequela di abusi: mi hanno avvelenato il cane, distrutto la recinzione di casa, fatto piovere i loro pallini dentro casa, svegliato regolarmente il sabato e la domenica in un clima di guerra; sono stato persino aggredito dentro il mio giardino da un loro cane, una volta che avevo dimenticato il cancello aperto.
Tra parentesi, in quest’ultimo caso il cacciatore ha detto che la colpa non era sua, bensì mia che non avevo provveduto a barricarmi in casa.
Siamo al paradosso, ma naturalmente tutto rigorosamente a termini di legge... o quasi. Ma nessuno controlla, e poi come sarebbe possibile?
Uccidere per divertirsi, provarsi nella performatività sportiva di colpire un fagiano d’allevamento, pretendere che l’ambiente sia a propria totale disposizione, turbare la quiete pubblica e mettere a repentaglio l’incolumità altrui, girovagare sotto le abitazioni delle persone con un fucile carico, spargere esche avvelenate: questa è la caccia, nient’altro.
Una pratica anacronistica e priva di significato, sostenuta per gli interessi di uno sparuto numero di persone ai danni dell’intera comunità.
La caccia non può essere regolamentata ma solamente vietata.
Dietro alla caccia non c’è solo l’istante dell’uccisione, ma si nasconde un modo perverso di gestire il territorio e di distruggere l’ambiente naturale.
In altre parole, prima creano i danni poi si propongono come i terapeuti, con gli organi mediali e i latifondisti agrari che troppo spesso danno loro man forte.
Penso all’allarmismo infondato sulle torme di caprioli, cinghiali, volpi, nutrie che in questi anni dovrebbero scorazzare per boschi e campagne seminando panico e distruzione. Chi li ha visti?
Cari cittadini, andate in campagna e troverete solo lunghe distese di terra arida sull’orlo della desertificazione e qualche fagiano confuso che sembra chiedersi come mai sia finito lì.