Non sono uno di quelli che vedete negli appelli. La faccia dietro le sbarre, l’occhio languido o spalancato. Le parole scritte sotto la foto, sempre le stesse: tenero, dolce, pesa solo due chili, chiamate o morirà, non può più stare in gabbia.
 Le parole. Ci guastiamo sempre con le parole. Se non fosse dolce? Se pesasse cento chili? Nessuno può più stare in gabbia. Nessuno di noi.
 Certo che le parole che dite voi sono tutte dello stesso colore. Non ce n’è una che farebbe sciogliere queste sbarre come neve al sole. Vale più la faccia, per cercare padrone, lo sguardo. Ma il mio non lo vedrete.
 Già, voi dite ancora “padrone”. C’è una cosa, e chi la possiede.
 Non mi vedrete, nella fiera della pietà. Nel carosello di chi invoca blan­dendo. Cercano famiglia a quelli come me in un perenne equivoco. Pena o ansia di liberarsi. Perché l’empatia alla lunga uccide. Nessuno di voi abita in un canile. Dovrebbe mettere le sbarre alle finestre. Ho trovato una sola similitudine: un reparto d’ospedale che si chiama rianimazione. Sei morto quando entri. Ci resti il tempo di capire se potrai ancora essere vivo. Voi prima o poi ne uscite. Noi ci restiamo per sempre.
 Se per sbaglio dimenticassero uno di voi là dentro, ci pensate? Né tempo né spazio. Niente più vita. Abituarsi a non sentire. E non senti più quando ti stacchi un pezzo di piede, di coda. Vai avanti e indietro anche se ti gira la testa perché tanto non la senti più. Avere gli occhi per vedere ma non poter vedere nulla. Aver voglia di correre veloci ma pensare di non avere più le gambe. Il mio compagno di cella sta dietro un muro. Quando è disperato appoggia il muso al cemento, posso sentirlo. Non sapere quando finirà.
 Anch’io posso non sapere: tutto quello che non posso più fare me lo suggerisce. Perché è SAPERE ed essere svegli che fa la differenza. Se dormi non ti importa.
 Non mi vedrete, non ho occhi, non ho più gambe né coda. Sono quell’ammasso di peli e arti spezzati che un cinese ha stipato in una gabbia prima di finirmi con l’accetta. Sono l’addome aperto senza anestesia per l’inutile vivisezione. Sono l’andirivieni alienato di una proboscide nell’inutile vuota esistenza di un giardino zoologico o di un circo. La tigre neanche sdraiata in due metri quadri di asfissia. Sono il cranio spaccato sulla neve del piccolo di foca. Sono il pianto di quel mio simile investito e lasciato due giorni al sole poi raccolto da due di voi tirato con un cappio, il bacino strusciato sull’asfalto bollente, le zampe rotte che seguono il corpo trascinate, caricato su un furgoncino e buttato vivo in discarica. L’avete visto, vero, quel vi­deo che ha girato in rete, senza alcun commento. L’avete visto senza soffrire. L’avete buttato in qualche angolo di voi, da dove prima o poi griderà di nuovo, griderà per sempre, la notte, al buio, nei momenti difficili, in rianimazione, fin nella tomba. Di empatia alla lunga si muore. E io, sarò ancora vivo per quanto?

 
 Dal saggio "Cani sciolti" di Stella Cervasio ("Carta Straccia. Economia dei diritti sospesi" aa.vv. a cura di A. Esposito, L. Melillo; ad est dell’equatore 2011)