L’essenza della filosofia è perché c’è l’essere e non il nulla, perché il nulla sarebbe stato più facile.
Gottfried Leibnitz
Risposta alla seconda domanda: dove siamo? Siamo su un palcoscenico unico, che basta volerlo e permette di esplorare le infinite sfaccettature del mondo, esterno e interno, e da esse ricostruire la visione d’insieme, arrivare all’essenza per comprendere che è la stessa cosa del tutto. Il bodhisattva Avalokiteshvara personifica karuna, la compassione, e prajna, la saggezza: lo sforzo umano di conoscere, grazie alle sue undici teste, mille braccia per soccorrere tutti gli abitanti del mondo.
Così scienza e coscienza devono andare insieme per consentire un reale progresso, cosa purtroppo spesso ignorata dalla nostra società che guarda alla scienza ma si dimentica troppo spesso della coscienza. Fisica e metafisica, si potrebbe dire con parole a noi più vicine, essere e non essere, Io e Sé. Sono cose davvero così lontane dal nostro essere “materia” macroscopica? O non è forse solo una questione di punti di vista, di distinguere tra fisica e metà-fisica (la metafisica la lascio ai filosofi) come del resto insegnava già Einstein nella teoria della relatività? La dualità è una parte fondamentale e misconosciuta dell’Universo e della vita. Viverla con gioia e spensieratezza esplorando di continuo i macrocosmi e i microcosmi che la vita pone sulla strada: come Giano bifronte sono onda e particella al contempo, energia e materia, luce e buio, Io e Sé, Tutto e Nulla, pieno e vuoto, yin e jang, uno e nessuno passando per i centomila …si potrebbe andare aventi all’infinito.
Già, l’infinito, rimirato dalla cima delle montagne, dai deserti africani, dalle mesetas spagnole, ma anche nella miriade di vita che appare in una goccia d’acqua al microscopio e nella infinita moltitudine di molecole di H2O che della stessa goccia sono l’invisibile essenza. Lo stesso infinito che Leopardi ha saputo così magicamente descrivere gettando lo sguardo giù dal colle di Recanati, che Leibnitz ha altrettanto magicamente racchiuso in un piccolo segno quasi insignificante, che pure torna tortuoso su se stesso a significare che tutto è per l’eternità, sempre uguale ma sempre diverso. Segno che riporta non a caso all’enso orientale, un enso attorcigliato perché noi occidentali si sa che siamo complicati. L'enso è simbolo della realtà e della nostra capacità di comprenderla, del pieno e del vuoto che ci costituiscono, materia costituita da atomi che sono per lo più spazio vuoto. L'enso viene tracciato con un'unica pennellata, proprio come la O di Giotto, e risulta tanto più energico e perfetto quanto più il suo autore è stato in grado di trascendere il proprio ego per ricongiungersi al Tutto, alla pura coscienza dell’Universo.
Chissa se Leibnitz conosceva l’enso quando ha connesso il tutto e il nulla con un altro picco segno all’apparenza insignificante, così piccolo eppure indispensabile per unire opposti apparentemente inconciliabili, l’uno e il nessuno passando per i centomila, per dare un senso al reale che altrimenti senso non avrebbe, e poco importa se si tratta di macrocosmi intergalattici, di invisibili microcosmi atomici, della costruzione di un ponte o dell’integrazione di un alunno disabile o straniero. Perché è di integrazione che stiamo parlando, ovvero della capacità di uscire dalla visione puramente macroscopica e fenomenologica del mondo per entrare in un mondo astratto in cui conta l’essenza profonda delle cose, un’essenza da ricercare con gli “occhi della mente” e che magari non può neppure venire descritta in modo preciso, ma solo approssimato perché la sua complessità va oltre le capacità del nostro elaboratore interno (e, per le funzioni matematiche avanzate, anche di quelli esterni), ma che viene comunque percepita da chi è in grado di ascoltare senza attaccamento all’apparenza delle cose, proprio come il vecchio saggio che guarda placidamente scorrere il proprio cadavere nella corrente.
Così Giotto, narra la leggenda, richiesto del miglior campione possibile della propria arte in vista dell’assegnazione da parte del papa Benedetto XI di importanti lavori per la basilica di San Pietro a Roma, lasciò di stucco il messo papale dipingendo con la vernice rossa, a mano libera e in un sol fiato sulla carta bianca, un cerchio perfetto. «Tutto qui? Non ha niente di meglio da darmi da portare al Papa?», chiese l’inviato. «Tutto qui, questo gli piacerà», rispose Giotto. Così deve essere stato, se è vero che il Papa assegnò i lavori al grande pittore fiorentino.
Image credits: Bamboo Enso by Deiryu Kutsu 1895-1954