BIOLOGIA. I ricercatori dell’Accademia slovacca delle Scienze hanno pubblicato le prime analisi di uno studio sulla flora dell’area, ipotizzando che le piante abbiano sviluppato un meccanismo di difesa antitossico già usato milioni di anni fa.
I giornali europei erano tornati a interessarsi dell’area intorno alla centrale di Chernobyl non più di un mese fa, quando l’avanzare degli incendi in Russia era prossimo a bruciare l’area contaminata. Il pericolo dichiarato riguardava le piante e gli alberi, imbevuti di sostanze radioattive, che ardendo avrebbero immesso nell’aria i gas tossici con conseguenze immaginabili. L’emergenza rientrò dopo pochi giorni, e quanto temuto non accadde. Ma ciò che incuriosì una parte dell’opinione pubblica occidentale fu sapere che nel territorio ucraino la flora era cresciuta nonostante tutto, come se il reattore numero quattro dell’impianto nucleare non avesse mai avuto problemi.
Un mistero durato nel tempo, e a cui la rivista Environmental Science and Technology ha recentemente dedicato un articolo, frutto di uno studio sui meccanismi biologici che hanno consentito alle piante di crescere adattandosi e sopravvivendo in terreni altamente radioattivi. Secondo Martin Hajduch, studioso dell’Accademia slovacca delle Scienze che con i colleghi ha portato avanti la ricerca, le piante hanno mostrato una capacità eccezionale, e per certi versi insospettabile, di adeguamento all’ambiente contaminato dalle radiazioni del 26 aprile 1986. «È semplicemente incredibile quanto rapidamente questo ecosistema sia stato in grado di adattarsi», spiega Hajduch.
Il quale ha ricordato che già in passato gli scienziati si erano interessati al fenomeno, limitandosi tuttavia alle analisi della soia presente nell’area. Si era scoperto che le piante avevano mostrato cambiamenti nel loro proteoma, un termine coniato da Mark Wilkins e usato per descrivere l’insieme delle proteine di un organismo o di un sistema biologico. Ma il più ampio spettro di cambiamenti biochimici che avevano permesso alla vegetazione di proliferare in un ambiente così inquinato era rimasto un enigma esemplificato nel paesaggio della città di Pripyat: deserta ma rigogliosa. Tre anni fa alcuni ricercatori indossarono maschere e guanti decisi a investigare sul fenomeno.
Entrarono in un campo seminato a soia e lino per prelevarne i semi e piantarli in una terra decontaminata. Hanno poi atteso che le piante crescessero e producessero a loro volta altri semi per esaminarne le proteine. Lo studio comparato ha portato ai risultati spiegati dallo stesso dottor Hajduch: «Nella soia abbiamo rilevato la mobilitazione delle proteine di riserva dei semi e dei processi simile a quello che si vede quando le piante devono adattarsi ai metalli pesanti. Nel lino è stato diverso, poiché abbiamo notato più proteine coinvolte nel processo».
L’ipotesi è che il meccanismo messo in atto abbia avuto un origine di milioni di anni, quando le forme di vita furono esposte ad alti livelli di radiazioni naturali: «Allora c’era molta più radioattività che adesso, e probabilmente le piante svilupparono una difesa che tuttora possiedono». Ovvero: non potendosi muovere per cercare condizioni migliori, si sono adattate con successo all’ambiente.