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ProgettoGuai essere troppo belli!
Pitagora esorta a astenersi dal mangiare gli animali
Guai essere troppo belli!

  Cari amici del Respiro, vorrei condividere con voi l'appassionato discorso di Pitagora, che parla per bocca di Ovidio, nelle "Metamorfosi" (scritte tra il 3 e l'8 d.C.)
 
Qui c'era un uomo che era nativo di Samo, ma fuggito da Samo, e dai padroni dell'isola, per odio verso la tirannide viveva in volontario esilio. Costui avvicinò gli dei, per quanto sperduti nelle profondità del cielo, con la mente, e ciò che la natura sottraeva agli sguardi umani, lo colse con l'occhio dell'intelletto. E una volta sviscerato tutto col pensiero e con attento impegno insegnava alla gente, e a schiere di discepoli muti e compresi d'ammirazione spiegava i principi dell'universo e le cause delle cose e cos'è la natura: cos'è dio, come si forma la neve, qual'è l'origine del fulmine, se è Giove oppure sono i venti a fare tuoni squarciando le nubi, che cosa fa tremare la terra, secondo quali leggi viaggiano le stelle, e tutto ciò che è mistero.

 
E per primo denunciò come una vergogna che s'imbandissero animali sulle mense, e per primo schiuse la sua bocca dotta (ma non altrettanto creduta) per pronunciare un discorso così concepito:

 "Astenetevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d'uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, ce n'è di quelle che si possono rendere più buone e più tenere con la cottura. E nessuno vi proibisce il latte, e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e sangue. Con la carne placano la fame le bestie, ma neppure tutte: il cavallo e le greggi e gli armenti vivono d'erba. Sono le bestie d'indole cattiva e selvatica, le tigri d'Armenia e i leoni iracondi e i lupi e gli orsi, a godere di cibi sanguinolenti. Ah, che delitto enorme è cacciare visceri nelle visceri, ingrassare il corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere vivente! In mezzo a tutta l'abbondanza di prodotti della Terra, la migliore di tutte le madri, davvero non ti piace altro che masticare con dente crudele povere carni piagate, facendo il verso col muso ai Ciclopi? E solo distruggendo un altro potrai placare lo sfinimento di un ventre vorace e vizioso? Eppure quell'antica età alla quale abbiamo dato il nome di età dell'oro era felice dei frutti degli alberi, e delle erbe che spuntano dal suolo, e non si lordava la bocca di sangue.
  Allora gli uccelli battevano tranquilli le ali per l'aria e la lepre girellava senza paura in mezzo ai prati, e il pesce non si ritrovava, per la sua ingenuità, appeso all'amo. Tutto era senza insidie, senza nessun inganno da temere, pieno di pace. Ma poi uno sciagurato, chissà chi, invidioso del vitto dei leoni, cominciò a buttarsi nell'avida pancia cibi di carne, e aprì la via al delitto. All'inizio, credo, il ferro si macchiò e s'intiepidì di sangue di bestie feroci: e ci si poteva fermare lì: ammazzare esseri che cercano di uccidere noi non è, lo riconosco, un'empietà. Ma se bisognava ammazzarli, banchettarci no!
  Da lì lo scempio andò molto oltre, e la prima vittima a meritarsi la morte fu, si ritiene, il maiale, perché col tondo grugno disseppelliva i semi soffiando i raccolti sperati. Perché morsicava le viti, il capro, si dice, cominciò a essere immolato sugli altari di Bacco, per punizione. Sia il maiale che il capro si rovinarono per colpa loro.
  Ma che male avete fatto voi, pecore, placide bestie nate per far del bene all'uomo, che portate un nettare nelle poppe rigonfie, che ci donate la vostra lana perché se ne facciano morbide vesti, e che ci siete più utili vive che morte? Che male ha fatto il bue, animale che non conosce frode né inganno, innocuo, bonaccione, nato per sgobbare? Ingrato, indegno perfino del dono delle messi colui che ebbe il coraggio di macellare il suo aiutante appena liberato dal peso del curvo aratro, colui che troncò con la scure quel collo spellato dalla fatica, grazie al quale tante volte aveva ripreparato il duro maggese e immagazzinato raccolti.
  E non ci si accontenta di commettere un simile delitto: si coinvolgono nel crimine perfino gli dei, con l'idea che le divinità del cielo godrebbero dell'uccisione del laborioso giovenco. La vittima senza macchia, la più bella (guai essere troppo belli!), tutta adornata di bende e d'oro, è piazzata davanti all'altare e sente ignara recitar preghiere e si vede sistemare sulla fronte, tra le corna, i prodotti che essa stessa ha coltivato, e colpita tinge di sangue il coltello di cui forse ha intravisto il balenio nell'acqua limpida. Subito esaminano i visceri estratti dal suo petto ancora vivo e li scrutano per leggervi le intenzioni degli dei. E voi (tanta dunque è nell'uomo la fame di cibi vietati) osate cibarvene, o stirpe mortale? Non fatelo, ve ne prego, ascoltate i miei avvertimenti, e se comunque vi mettete in bocca membra di buoi macellati, sappiate e abbiate coscienza che state mangiando i vostri lavoratori"

Ovidio, "Metamorfosi", (a cura di Piero Bernardini Marzolla), Einaudi, Torino, 1979


Data: 06/01/2011
Autore: Isabella Notturno
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